Taizé celebra quest’anno il suo ottantesimo anniversario. Ci può raccontare cosa è cambiato — e cosa non è cambiato — nella comunità tra il 1940 e il 2020?
Nel 1940 fratel Roger era il solo a portare avanti il progetto di dare vita a una comunità. Oggi siamo un centinaio di fratelli. Questo è un grande cambiamento. Inoltre accogliamo ogni anno migliaia di giovani da tutti i continenti, e questo è un’altra grande evoluzione che ancora oggi stupisce noi stessi. Ciò che non è cambiato, invece, è il cuore della nostra vocazione. Quando fratel Roger arrivò a Taizé nell’agosto del 1940, la situazione mondiale aveva poco a che fare con quella di oggi. Tuttavia, la sua prima intuizione rimane profondamente attuale: inserire una vita spirituale, una ricerca di Dio, laddove si trovano le fratture del mondo. All’epoca si trattava di accogliere i rifugiati — in particolare gli ebrei — durante la seconda guerra mondiale. Ancora oggi accogliamo dei profughi a Taizé e alcuni nostri fratelli vivono in piccole fraternità in luoghi particolarmente indifesi nel mondo odierno. Negli anni che hanno seguito la creazione della comunità, i primi fratelli che si unirono a Roger vivevano del lavoro agricolo, in condizioni molto semplici. Oggi continuiamo a guadagnarci da vivere, in diversi modi, senza accettare donazioni, regali o eredità. La regola che il nostro fondatore scrisse all’inizio degli anni Cinquanta continua tuttora a ispirarci oggi: vi aveva annotato le intuizioni spirituali essenziali che aveva nei confronti dei suoi fratelli. Tra queste ne isolerei due: il desiderio di essere presenti nel nostro tempo, rimanendo sempre attenti alle chiamate che il Vangelo ci rivolge; e la ricerca dell’unità tra i cristiani, non come fine a se stessa, ma come testimonianza del Vangelo e anche come fattore di pace per tutta l’umanità. Ciò che non è mai cambiato, infine, è la regolarità della nostra preghiera comune, tre volte al giorno, anche se le sue forme di espressione si sono modificate, soprattutto attraverso quelli che vengono chiamati i canti di Taizé.
Come si articolano gli scambi tra le diverse generazioni che hanno frequentato e frequentano la comunità?
All’interno della comunità viviamo quotidianamente questo dialogo tra generazioni: tra i fratelli maggiori arrivati a Taizé sessanta o addirittura settant’anni fa e i più giovani, che per la maggior parte non hanno conosciuto fratel Roger, ci sono ovviamente differenze notevoli. Siamo molto riconoscenti alle prime generazioni che hanno saputo accompagnare i cambiamenti nella comunità, nell’accoglienza dei giovani o nelle opzioni liturgiche, per esempio. Con i pellegrini si crea naturalmente una bella piattaforma di dialogo: ogni settimana dell’anno i giovani sono i più numerosi, ma ci sono anche adulti, genitori con i figli, persone anziane. Ci sono tanti scambi tra di loro e questa dimensione dell’incontro mi sembra molto importante. E poi un altro aspetto mi rallegra: quando i giovani mi spiegano di essere venuti su suggerimento dei genitori o dei nonni, a volte anche con loro. Tre generazioni che trovano la loro strada verso la nostra piccola collina, questo ci colpisce.
Come si mantiene la continuità di Taizé negli anni mentre altri movimenti nati dal dopoguerra sembrano spegnersi con il passare del tempo?
Siamo i primi a meravigliarci di questa continuità. Non so come spiegarla, ma la vedo come una delle più belle eredità di fratel Roger: attraverso tutti i mutamenti avvenuti da una generazione all’altra, lui ha sempre insistito sul fatto che le tre preghiere comuni rimanessero al centro degli incontri giovanili e d’altra parte ci ha sempre chiamati a essere prima di tutto persone di ascolto nei confronti di chi partecipa a questi incontri. Non ha mai voluto creare un movimento organizzato, suggerendo piuttosto che Taizé restasse un luogo di passaggio per attingere insieme alle fonti della fede. Ogni sera in chiesa, dopo la preghiera comune, con i fratelli siamo a disposizione di tutti coloro che desiderano parlare a tu per tu. E sono colpito dalla profonda sete spirituale che molti esprimono. Oggi sembra che per le giovani generazioni la fede sia spesso legata a un impegno concreto. D’altronde, i più giovani sono molto consapevoli delle questioni ecologiche. Non solo ne parlano, ma vogliono impegnarsi concretamente per salvare l’ambiente. Spetta a noi, quindi, di camminare accanto a loro e aiutarli a stabilire un legame con la fede. Spesso aspettano dalla Chiesa parole forti su questi temi.
Giorni fa si è celebrato anche il quindicesimo anniversario della morte di fratel Roger, assassinato il 16 agosto 2005 da una squilibrata, proprio nella chiesa della Riconciliazione a Taizé. In che modo la sua eredità spirituale e umana è sempre presente?
È vero, questi due anniversari sono per noi una grande occasione per rendere grazie per la vita e l’opera del nostro fondatore. Non si tratta di guardare al passato, ma di rallegrarsi insieme per tutti i frutti che la sua vita continua a portare. Per quanto riguarda la Chiesa, il suo contributo più importante resta l’instancabile ricerca dell’unità. Fratel Roger ha avuto sin dall’inizio la volontà di porre la ricerca dell’unità al centro della comunità, affinché sperimentasse l’unità prima di parlarne. Anche oggi i fratelli, cresciuti in diverse Chiese e che ora vivono sotto lo stesso tetto, si sforzano così di anticipare l’unità del futuro. L’unità della famiglia umana è stata un’idea centrale, una preoccupazione che ha segnato tutta la vita di fratel Roger. All’indomani della seconda guerra mondiale, c’era un’emergenza: la riconciliazione tra popoli divisi. Sebbene ovviamente i problemi siano cambiati, credo che l’importanza dell’unità della nostra famiglia umana rimanga più urgente che mai. Un terzo contributo resta molto attuale: la testimonianza che non c’è contraddizione tra vita interiore e solidarietà, ma al contrario un legame profondo. Come ha detto il teologo ortodosso Olivier Clément, i giovani di Taizé possono fare questa sorprendente scoperta: niente è più responsabile della preghiera. Infine, all’interno della comunità, Roger Schutz ha insistito molto sulla vita fraterna: voleva che fossimo un solo corpo, per esprimere una “parabola di comunione”. Sono felice che continuiamo a vivere nutriti da questa intuizione. Non sarà mai il nostro obiettivo quello di diventare una grande istituzione, intendiamo invece rimanere una piccola comunità in cui i legami fraterni hanno la precedenza su tutto il resto.
Come hanno dovuto riorganizzarsi la comunità e il sito di Taizé di fronte alla pandemia di coronavirus? Quali misure sono state prese? Come vi siete adattati?
Noi fratelli, per limitare i rischi di contagio, ci siamo sin dall’inizio suddivisi in otto centri, e questo ci ha permesso di riscoprire diversamente la vita fraterna. È stato come un anno sabbatico, vissuto tutti insieme. Abbiamo dovuto adattarci a questa situazione senza precedenti in molti modi. Un esempio concreto: accogliamo tre famiglie yazide a Taizé, e un fratello ha aiutato i bambini a fare i compiti (con il confinamento tutto doveva essere fatto online). L’ospitalità fa parte del cuore di ciò che vogliamo vivere come comunità ed è stato quindi molto difficile rinunciarvi a metà marzo, quando è iniziato il lockdown. Questo ci ha stimolato a prendere diverse iniziative usando internet, in particolare la trasmissione, ogni sera in diretta, della preghiera da Taizé e anche un weekend “in rete” che ha riunito circa quattrocento giovani adulti. Il programma includeva meditazioni bibliche, condivisione in piccoli gruppi virtuali, workshop. Il riscontro è stato positivo e faremo una seconda proposta analoga nell’ultimo fine settimana di agosto. Da metà giugno a Taizé è stato ripristinato il servizio di accoglienza e sono state adottate una serie di misure sanitarie per garantire la massima protezione a tutti. Siamo in stretto contatto con le autorità civili per adattare le nostre direttive. I giovani si dimostrano molto responsabili in questa difficile situazione che stiamo attraversando tutti.
Cosa la preoccupa di più nella crisi del coronavirus?
Prima di tutto la sofferenza che tante persone sperimentano: la prova della malattia, la morte di una persona cara, la solitudine di tanta gente. Ci sono conseguenze molto dure che dovremo affrontare, siano esse economiche, sociali o anche psicologiche. Per esempio penso ai bambini che per mesi non hanno potuto abbracciare i nonni. Un’altra cosa che mi preoccupa è la tentazione di ripiegarsi su se stessi. Spero sinceramente che l’unità e la solidarietà prevarranno sulle accuse che vediamo incombere qua e là: non ci sarebbe niente di più inutile che cercare capri espiatori per la pandemia. Continuo a portare questo nella mia preghiera: che l’unità prevalga.
Di fronte alla crisi del covid-19, come può Taizé aiutare a mantenere la speranza mentre la società è una barca che fa acqua da tutte le parti?
Siamo tutti su questa barca. E non abbiamo risposte già pronte. Dobbiamo sempre tornare alla fonte della nostra speranza, che è la risurrezione di Cristo. Nel Vangelo non sono le previsioni apocalittiche che hanno l’ultima parola, ma l’orizzonte finale è la risurrezione. Risvegliare questa speranza attraverso la preghiera personale ma anche attraverso le nostre celebrazioni: questo ci aiuterà ad affrontare la realtà, non a edulcorarla. Vanno anche sottolineati tutti i gesti di solidarietà e i segni di speranza compiuti in questo periodo così difficile. Sono colpito da tutto quello che sento al riguardo. Sin dal mese di marzo abbiamo ricevuto messaggi molto forti da parte di alcuni amici, per esempio dal Nord Italia, che spiegavano come si era messa in moto questa solidarietà. Un altro recentissimo esempio è arrivato dal Libano, un paese tanto provato e al quale siamo strettamente legati: in seguito alle terribili esplosioni nel porto di Beirut, diverse famiglie sono scese dalle colline e dalle montagne circostanti per aiutare a sgomberare le macerie e ad accogliere famiglie le cui case erano state distrutte. In Europa ci sono nazioni e politici che scommettono su una maggiore solidarietà: noi vorremmo sostenerli. Ciò fa sperare in una maggiore fraternità tra i Paesi e anche con i diversi continenti. Sì, credo profondamente che la grande maggioranza delle persone abbia sete di fratellanza. E questo è un buon momento per rafforzare tale aspirazione. Nell’enciclica Laudato si’, Papa Francesco sottolinea l’essenziale «sviluppo di istituzioni internazionali più forti ed efficacemente organizzate». È vero: il virus non conosce confini, ma nemmeno la sete di solidarietà e di fraternità.
Cosa dicono e pensano i giovani di Taizé sulla crisi sanitaria, economica e sociale legata al covid-19?
Vorrei menzionare alcune preoccupazioni che avverto parlando con loro e che non sono solo legate all’attuale pandemia. C’è un’autentica paura di fronte al futuro tra molti giovani. Alcuni soffrono per le crescenti disuguaglianze, i cui effetti si possono già vedere a scuola. Come ho detto prima, noto anche una forte richiesta di cambiamento da parte delle generazioni più giovani di fronte all’emergenza climatica. Mi ricordo per esempio di uno scambio avvenuto una sera nella nostra chiesa con un giovane volontario portoghese che richiamava la mia attenzione sul crescente impegno di molti giovani a favore delle questioni ambientali. Il suo invito, come quello di altri ragazzi che vanno nella stessa direzione, ha dato vita, negli ultimi mesi, a una riflessione ecologica a Taizé, dove i giovani sono una forza trainante. Probabilmente siamo di fronte a un vero momento di conversione: semplificare tutto ciò che può essere nel nostro modo di vivere, senza aspettare che i cambiamenti vengano imposti dall’alto. Ricordandoci allo stesso tempo che la semplicità non significa mai assenza di gioia ma può anzi coincidere con uno spirito di festa. Mi sembra che la Chiesa abbia un ruolo importante da svolgere nel comunicare questi valori che provengono direttamente dal Vangelo.
di Charles de Pechpeyrou