Nella notte dell’Occidente, dove ormai è assente un porto sicuro in cui poter creare qualcosa che sappia di luce, va certamente salutato con entusiasmo un dibattito su temi così delicati che dovrebbero interrogare la coscienza non solo di chi crede. Il mio intervento è strutturato in due parti: nella prima vorrei analizzare ciò che considero uno dei problemi più seri che ci impediscono di sentire l’Eterno e, al contempo, riconoscere l’altro; nella seconda parte proverò ad avanzare una proposta.
La nostra stagione non è spuntata all’improvviso come un fungo. Se oggi Dio è morto e si corre nel buio senza meta, il terreno è stato preparato diversi secoli fa. Con Cartesio, ad esempio, e il suo rivoluzionario tentativo di esplorare le province della soggettività, il pensiero inizia a visitare sé stesso e scopre che l’io può dubitare di tutto, tranne del fatto stesso che in questo preciso istante sta dubitando. Perciò pur ammettendo l’esistenza di una realtà esterna, il padre della filosofia moderna ci suggerisce che nessuno può avere la certezza di quel che vede; l’uomo, infatti, può essere certo soltanto delle sue «rappresentazioni», di ciò che accade al suo interno, ma non della specifica peculiarità che investe l’esterno. Se io osservo quel cane passeggiare con il suo padrone potrei anche fidarmi dei miei occhi, ma non ho la certezza assoluta che quella cosa sia davvero un cane o che la scena davanti a me non sia invece un’illusione; ma quel cane è dentro il mio pensiero ed è la mia rappresentazione: quindi esiste solo perché esisto io che lo sto pensando. Kant, un secolo dopo, muovendosi in una direzione moderna e cartesiana, esprimerà una sentenza inappellabile affermando che il soggetto non può mai conoscere la realtà in sé.
Egli non nega Dio, l’Assoluto, l’immutabile, e non discute il dualismo tra l’io e la realtà, tra la soggettività umana e la cosa in sé. Ma quest’ultima, che lui chiama noumeno, non può essere raggiunta in termini gnoseologici dal soggetto, dato che l’uomo può solo conoscere il fenomeno (la rappresentazione). Con Kant, comunque, il pensiero affronta un altro viaggio, ancora più delicato e problematico rispetto al passato; avanza per poi autolimitarsi e tracciare un confine ben definito salvaguardando la traccia indecifrabile della realtà esterna e chiudendo così la prima stagione della modernità. L’idealismo, invece, e soprattutto quello di Hegel, si spinge oltre finendo, da un lato, per rinnegare la cosa in sé, per rinnegare quindi una realtà esterna all’io, e dall’altro allarga l’orizzonte del pensiero fino a farlo coincidere con il reale: il pensiero è il reale, o meglio tutta la realtà è ben custodita all’interno di un pensiero, in perenne movimento, che ha sbarrato la strada a un Trascendente interpretato come altro dalla storia, e di conseguenza ha spinto l’io in modo vertiginoso verso l’immanenza e da lì non si è più rialzato; anzi, gioca nell’«eterno ritorno» profetizzato da Nietzsche, ove l’“eterno” al minuscolo è l’io incollato alla sua ombra.
Questa vorace insistenza sull’io è giunta sin qui e, in concomitanza con molteplici fattori che adesso non è il caso di approfondire, ha contribuito a modellare una forma mentis nemica della convinzione che esista altro da me. Non vige una linea di perfetta continuità tra modernità e contemporaneità, ma pare evidente che oggi si navighi a vele spiegate nell’oceano delle rappresentazioni e si è sempre più distanti dal corpo e contenuto della realtà. L’uomo odierno è in fondo cartesiano, kantiano, hegeliano e nietzscheano proprio perché è chiuso nelle pareti dell’io e per lui non vi è altro! Al di là del mio piccolo confine, dunque, non vi possono essere né Dio né il tu, ma solo una debole e precaria interpretazione lavorata a freddo nelle stanze della solitudine.
Inoltre, non si può eludere il grande rischio cui va incontro il soggetto postmoderno: l’evaporazione della soggettività! In un processo di continua radicalizzazione dell’io e del suo dirsi, sentirsi, esserci, è ovvio che prima o poi si mescolerà tra le cose del mondo. Insomma, non può durare a lungo il primo pronome senza gli altri pronomi, un io senza Dio, un volto senza la protezione dell’Eterno. Il mio stesso respiro si fa sempre più affannoso in assenza del motivo che lo guida. Allora è chiaro che occorre ricominciare nuovamente dall’abc: il riconoscimento della realtà esterna, dell’altro da me. Non che occorra tuffarsi in chiave nostalgica nel passato al fine di impiegare gli strumenti premoderni, o insistere sul bisogno di costruire nuove idee o teorie. Forse il riconoscimento di altro da me può partire davvero se il me stesso inizia a indietreggiare. In tempi di ostentata ricchezza e arroganza di vario accento, un’autentica “povertà di spirito” può finalmente consentire la decostruzione dell’io.
Decostruire non significa dar credito a una forma di pensiero debole, e non è un tentativo di riprendere la variegata grammatica del misticismo o lo sfondo giusnaturalista dei tempi antichi e moderni. Con questa espressione non s’intende neppure recuperare le chiavi di lettura o le ambizioni speculative e di riflesso socio-politiche dei vari Heidegger, Derrida o Nancy (dove il cristianesimo vuole essere superato). Decostruire vuole dire depotenziare l’io nell’epoca della volontà di potenza: ridimensionando l’idea che l’altro sia il frutto di una mia proiezione, e parimenti riducendo quell’intreccio che si alimenta di convinzioni, immagini, cultura, a priori, tradizioni o rumori che mi condizionano fino alle ossa.
Anche perché se la valigia dell’io è piena, specie adesso dinanzi all’impennata narcisistica dell’uomo postmoderno, l’incontro con l’alterità si traduce in lettera morta, ipocrisia o dimostrazione fallica. Decostruire, inoltre, come sospensione e concreta possibilità di cedere porzioni non solo del proprio avere ma persino del proprio essere: una crisi necessaria che dovrebbe permettere la trasformazione dell’“esserci” in “esserti”. Decostruire, infine, come spostarsi di direzione, come difficile ritrovamento di una zona bianca in attesa non di ingenua pienezza, ma di persistente inadeguatezza, buchi e impaccio. Perché l’alterità, se esiste, mi disturba, interpella, grida, e un io sazio non può ricevere niente. L’io decostruito, liberato e semplice, non viaggerebbe più alla ricerca di sé, della Verità o del Senso, ma nel momento in cui si rende conto che attorno a lui c’è vita, si getterebbe a capofitto alla ricerca del secondo respiro: che è il senso.