Il giurista rinnova le sue perplessità anche sull’articolo 4: «Degrada a legge ordinaria una garanzia costituzionale L’articolo 7, invece, non mi dà preoccupazioni dal punto di vista penale»
Il vento fa volare i fogli dalla scrivania di Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale ed ex ministro della Giustizia. È da settimane che il professore studia i profili giuridici del ddl Zan, appuntando le sue riflessioni. Dopo aver sollevato proprio con Avvenire le prime perplessità e indicato possibili vie per superarle, di recente in alcune interviste ha offerto delle proposte concrete che però a sinistra non sono piaciute molto. «Vorrei tornare a spiegare le conclusioni a cui sono arrivato, e il modo in cui ci sono arrivato…».
Dica, professore…
Allora, noi ci troviamo di fronte a tre ordini di problemi. Il primo è la frammentazione del bene da tutelare. Non solo il sesso, ma anche l’orientamento sessuale ovvero l’attrazione verso l’uno o l’altro sesso, il genere inteso come costruzione sociale e culturale del sesso, l’identità di genere come condizione personale diversa da quella generale. Sono valori che devono essere difesi e garantiti ma che nella norma si traducono in concetti vaghi, che possono aprire ad eccessi interpretativi in sede giurisprudenziale.
Il secondo problema?
Il secondo problema è che si pensa di aiutare il pronunciamento di un giudice con un elenco, una casistica. In sede penale elenchi e casistiche non funzionano troppo, possono escludere molti casi o includerne altri. E poi abbiamo il terzo problema.
Il più grave, a sentire il suo tono…
Sì ed è emerso proprio dal dibattito che si sta svolgendo in questi giorni anche con il contributo, a mio avviso improprio, della Santa Sede. Si tratta dell’individuazione della condotta che meriti di essere definita discriminatoria e che quindi renda necessaria una sanzione penale. Per quanti sforzi si possano fare, è davvero difficile capire dove finisce la legittima scelta, decisione ed espressione di un pensiero e dove invece inizi un atto discriminatorio, o l’incitamento ad un atto discriminatorio o ancor più violento.
Poi torniamo alla “nota verbale”, ma intanto, a fronte di questo intreccio di questioni complesse, lei ha una soluzione?
Non la chiamo soluzione, non mi ritengo in diritto di offrire soluzioni. Mi limito a prospettare la possibilità di una formulazione diversa: io credo che una legge funzionerebbe meglio, e forse sarebbe applicata con più chiarezza, se ci si riferisse al «sesso nelle sue manifestazioni ed espressioni di ordine sociale ed individuale». Si offrirebbe al giudice un ancoraggio un po’ più certo.
Sono osservazioni simili a quelle formulate dalla Santa Sede, che però lei ha ritenuto non opportune.
Non nel merito, ma nel modo. Non ho timore di ribadire che quella nota verbale, cadendo nel pieno del processo legislativo parlamentare, non fosse opportuna.
Lei sa che altre richieste di dialogo sul ddl Zan la politica le ha lasciate cadere nel vuoto…
Non rispondo per le scelte della politica. Ora vedremo in che modo il governo farà le sue scelte insindacabili di alta politica in risposta a quella nota diplomatica. Fermo restando che anche il governo ha limiti rispetto all’azione del Parlamento.
Torniamo alla sua riformulazione dell’articolo 1.
Personalità che stimo contestano in modo documentato che il sesso non è sufficiente a racchiudere quella varietà di situazioni di cui si occupa il ddl Zan. Io penso che una definizione estensiva di sesso consenta invece al giudice di lavorare intorno a un concetto più chiaro attraverso un’interpretazione corretta; penso all’interpretazione che dottrina e giurisprudenza hanno dato del «paesaggio» nell’articolo 9 della Carta, in termini di «ambiente».
In questi giorni si è evocata la Corte costituzionale. La legge Zan potrebbe finire davanti alla Consulta?
Questo ovviamente non lo posso prevedere. Posso dire che esiste una giurisprudenza consolidata della Consulta a tutela della libertà d’espressione sempre, salvo quando non sia una chiara incitazione alla discriminazione, all’odio, alla violenza. Accadrà che la Corte dovrà potersi pronunciarsi se un giudice, come potrei temere, dovesse trovarsi in difficoltà rispetto alla corretta applicazione di questa legge in virtù della vaghezza dei concetti e anche alla non chiara definizione del confine tra decisione legittima e discriminazione.
Mantiene delle riserve più generali sul testo?
L’articolo 4, come già ho avuto occasione di segnalare, non mi piace perché degrada a legge ordinaria una garanzia costituzionale. L’articolo 7, invece, non mi pare così problematico e non sembra avere implicazioni penali che debbano preoccupare allo stesso modo. In generale sottolineo tutta la difficoltà e complessità di scrivere ed applicare norme penali sull’eguaglianza come principio (ad esempio al pari della solidarietà) e, nel caso di specie, sul sesso e le varie condizioni di cui si parla nella legge Zan.
Perché sul sesso è più difficile?
Le faccio un esempio adeguato al tempo balneare: cerco un bagnino maschio perché ritengo abbia più forza fisica, sto discriminando? Non credo proprio. È più facile individuare la discriminazione attraverso la razza o la religione.
Una legge però serve?
La legge è necessaria tra l’altro anche per motivi costituzionali e sovranazionali, di fronte alla quotidianità delle violenze che vengono praticate in questo campo. Dei motivi di non discriminazione previsti nella Carta, il sesso è l’unico che non ha norme ad hoc. Inoltre recependo la risoluzione Onu del 1966, che non prevedeva il sesso accanto alla razza e alla religione, l’Italia non ha provveduto a colmare la lacuna rispetto all’articolo 3 della Costituzione.