Deve essere sottoposto a profonda rielaborazione critica, in primo luogo, il tratto infantile – in tutti i sensi, purtroppo – di una diffusa cultura ecclesiastica della sessualità. Ieri inquadrata moralmente in una sorta di estensione degli «atti impuri» (versione infantile); oggi riabilitata nelle forme della «tenerezza reciproca» (versione infantile, per quanto positiva).
La serietà della costruzione di una personalità risolta, a riguardo della sessualità, quali che siano le sue scelte di vita, chiede una più profonda comprensione dei modi in cui essa segna – fra gli umani – le forme della relazione e del riconoscimento, dell’identità e dei legami. Una personalità risolta sa anche, e assimila in comportamenti di relazione e in stili di vita, che il riconoscimento della dimensione sessuale nel rapporto con un figlio o con una sorella trova la sua ricchezza e la sua profondità in un modo profondamente diverso da quello dell’uomo e della donna che li hanno generati.
Non solo il godimento, ma neppure la tenerezza è identica: la persona matura sa come custodire la differenza, senza mortificarne la ricchezza. La cultura diffusa in questa fase, a proposito del consumo della sessualità, non guarda troppo per il sottile alla differenza. Non è un caso se la drammatica immaturità generata da questa confusione mostra sintomi orribili e tragiche ricadute sui rapporti affettivi: anche i più intimi e famigliari. Che cosa rende così permeabile l’ambiente religioso – e non solo dei sacerdoti – per un disorientamento di questo genere?
Il dolore nel dolore che proviamo di fronte a questa evidenza è proprio l’accusa di insensibilità del resto della Chiesa. L’orrore è stato sottovalutato, ammorbidito in semplice errore. Eccessi di tenerezza, appunto, atti impuri. Lo stravolgimento della grammatica affettiva di base, l’ostruzione della maturazione personale, l’imposizione di auto-interrogazioni destabilizzanti e senza risposta: come mai l’enormità di tutto questo ha prodotto reazioni così insignificanti – e spesso ancora più colpevoli?
La nostra testimonianza – della nostra vita, prima di tutto, ma anche della nostra cultura – dovrebbe rappresentare un elemento persuasivo e affidabile di contrasto nei confronti dello svilimento infantile della sessualità e della violenza drammatica che esso finisce sempre per coprire. Questa cultura mediocre e infantile non ci scusa. Piuttosto, essa aggrava la nostra responsabilità. Perché noi non siamo uomini e donne analfabeti e sprovveduti.
Espiare, dunque, significherà anche questo. Noi impareremo a dichiarare con maggiore umiltà e con serena franchezza di non essere comunque all’altezza della grazia che predichiamo e dell’amore che portiamo. Non per accampare un facile alibi alla nostra vergogna, naturalmente. Ma piuttosto per accettare di esserne più severamente giudicati. La riconquista della differenza sostanziale fra uno stile ecclesiale devoto e sentimentale, carezzevole e possessivo, e quello evangelico di Gesù ci dovrà costare lacrime e sangue nei prossimi anni. E solo così ridiventeremo credibili. Come lo sono già – grazie a Dio – i molti che non cercano nella violazione degli inermi un risarcimento per l’impotenza della loro dedizione.
La ruvida tenerezza della dedizione di Gesù – asciutta, forte, non appiccicosa, non clericale – è una rivelazione nella Rivelazione. Nella formazione è quasi scomparsa dai radar. Dobbiamo chiedere e accettare di essere giudicati su questo metro: è una priorità. Meno chiacchiere di sacrestia e futili dispute su quante candele o quanti kyrie eleison. La nostra espiazione deve essere una cosa seria. Proprio essa dovrà onorare la fede che ci è stata consegnata e riconciliare la comunità con il ministero che le viene dedicato. Dovremo vedere i frutti di questa espiazione, per essere sicuri che il suo seme ha rivoltato la terra. Dio sa fare questo. E se siamo credenti, chiediamogli di avere il coraggio di affondare l’aratro, anche dove fa male.