Anche “in noi ci sono fenomeni di cecità, di idolatria, che è essenzialmente una mancanza di fede nel Signore Gesù, l’incapacità di vivere davvero affidandoci” a Lui. Dietro all’idolatria vi è, infatti, la corruzione, il non riconoscere più Dio, perché ciascuno si fa il suo dio. Lo sottolinea padre Pietro Bovati nella quinta meditazione di questi Esercizi spirituali tenuti ad Ariccia, partendo oggi dall’episodio del vitello d’oro, narrato nell’Esodo, e come, per altre meditazioni, richiamandosi alla storia di Mosè, al Vangelo di Matteo e ai Salmi. Dal Vaticano arriva intanto la notizia, diffusa dalla Sala Stampa, che Francesco segue le meditazioni quotidiane del predicatore gesuita e che il raffreddore “sta facendo il suo corso, senza sintomi riconducibili ad altre patologie”.
Al centro della riflessione di questo pomeriggio, è il peccato non come viene per lo più presentato come trasgressione alla legge di Dio ma come “mancanza di fede”. Il primo dei precetti del Decalogo fa riferimento, infatti, al non avere altri dei al posto dell’unico Dio e a non fare immagini della divinità. Quest’ultima specificazione, nota il gesuita, è stata considerata superata per il popolo cristiano: si ritiene l’idolo, il feticcio, un retaggio del passato. Viene invece ritenuto utile, “anche contro le tendenze iconoclaste”, ricorrere a immagini della divinità per accrescere la fede. Ma l’idolatria rimane “un peccato capitale denunciato in tutta la tradizione dell’Antico Testamento”.
Il peccato non riconosciuto
Esiste, infatti, “una cecità gravissima” che affligge la coscienza, proprio perché non la si riconosce. Come quando nel Vangelo di Giovanni Gesù osserva: “Siccome dite: ‘Noi vediamo’, il vostro peccato rimane”. “È il peccato che non può essere guarito, perché non è riconosciuto”, anzi è negato “e assomiglia quindi – nota padre Bovati – al peccato contro lo spirito, senza rimedio”. Una critica serrata all’ipocrisia degli scribi c’è poi nel Vangelo di Matteo, al capitolo 23, e anche dei farisei, gli osservanti che si presentavano al popolo come modelli da imitare.
L’ipocrisia è menzogna, perché sostituisce l’agire buono con l’apparenza della bontà, stravolge la pratica devota perché invece di essere “a gloria di Dio”, è indirizzata all’esaltazione e all’onore dell’uomo. L’ipocrisia non sa giudicare, non sa cosa sia il vero discernimento; è cieca, non conosce la giustizia, la misericordia, la fedeltà, identifica il bene con pratiche e adempimenti materiali.
Centrale nella meditazione del teologo gesuita la vicenda del vitello d’oro, narrata nell’Esodo al capitolo 32. Mentre Mosè è sul monte, Dio gli dice che il popolo si è pervertito usando un verbo che richiama la corruzione, un termine che si usa spesso, sottolinea il biblista, un termine che ha il suo punto centrale nel non riconoscere Dio. Proprio da questo “vengono tutti i mali, perché non si ascolta più la voce del Signore, ma si producono distorsioni di varia natura proprio perché ciascuno – afferma con forza – si fa il suo dio, si fa la sua legge, si fa la sua beatitudine”. Anche nella Lettera ai Romani, San Paolo mostra come il fatto di non riconoscere più Dio come Dio è il principio di tutta la disgregazione in ambito interpersonale, nelle relazioni sessuali e causa dei disordini violenti che investono la società.
Ascoltare non possedere
Proprio a partire da questo testo dell’Esodo, padre Bovati sviscera il fenomeno dell’idolatria mettendone in luce diversi aspetti: come nasca dal desiderio di certezze, dal preferire “vedere” piuttosto che ascoltare la voce di Dio invisibile.
Ma il talismano, può avere la forma di una costituzione dottrinale o disciplinare. La sua rigidità, che è ritenuta sinonimo di solidità e perennità, l’aspetto chiaro e controllabile della dottrina, perfino la sua qualità intellettuale, sono parvenze ingannevoli, se tale costruzione sostituisce l’ascolto umile e permanente della voce di Dio che parla come spirito. Se si sostituisce il credere con il sapere, se si cessa di aderire a Dio, certo si crede di possedere la verità, invece di cercarla e ascoltarla in umile docilità.
Gesù ha vinto il mondo
Il vitello d’oro porta poi il pensiero del predicatore a soffermarsi sull’importanza dell’immagine pubblica nel mondo virtuale in cui viviamo e a quando magari si diventa followers di un oggetto idolatrico. Da qui, padre Bovati mette anche in guardia da un culto magari devoto e splendido nell’esecuzione ma senza l’accoglienza di una Parola che trasforma. “Non bastano – ammonisce – le cerimonie ben fatte, se esse non sono fondate sull’autentica preghiera che è prima di tutto ascolto” di Dio. Centrale è infine il richiamo al Vangelo di Matteo, in particolare alle tentazioni nel deserto. Gesù esce vittorioso e ci insegna la strada per superare la nostra cecità, sottolinea il biblista. Gesù indica la strada del servo. E anche il Salmo 106 ricorda che nella storia di Israele, sempre, Dio interviene con gesti di salvezza.
È questo che allarga il nostro cuore, che ci fra entrare nell’azione di grazia per la bontà del Signore, perché il suo amore è eterno. Gesù dice: “Abbiate coraggio. Io ho vinto il mondo”. Ecco, lo ha vinto anche per noi, così che nel riconoscimento anche della nostra poca fede possiamo comunque intonare l’inno di lode, volgendo lo sguardo amoroso verso di Lui, il solo nostro Dio, il nostro Salvatore.
Debora Donnini