Le elezioni europee del 2024 si svolgeranno da giovedì 6 a domenica 9 giugno, giorni in cui i cittadini degli Stati membri dell’Ue saranno chiamati a eleggere i propri rappresentanti al Parlamento europeo. In un anno caratterizzato da elezioni in molti Paesi chiave – Stati Uniti, Brasile, India, Indonesia, Pakistan, per citarne solo alcuni –, le elezioni europee rappresentano forse un’eccezione, non essendo a carattere nazionale, ma non sono certamente le meno importanti. Infatti, hanno diritto di voto quasi 400 milioni di cittadini europei. Ciò rende tali elezioni seconde a livello mondiale solo a quelle federali indiane, in termini di democrazia rappresentativa. Nella misura in cui influenzano le politiche dell’Ue, il loro impatto è globale: sebbene l’Unione europea non sia più la potenza economica di un tempo, essa appartiene ancora, insieme agli Stati Uniti e alla Cina, a un gruppo molto selezionato di attori che definiscono la politica mondiale.
Per che cosa votano gli europei, di preciso?
Innanzitutto, che cosa possono decidere gli elettori europei con il loro voto? È una domanda importante, dal momento che le conseguenze del voto dei cittadini variano molto a seconda del sistema democratico in cui lo si esprime. L’architettura europea è sostanzialmente basata su un sistema di tre attori. Il primo, il Consiglio europeo, riunisce i rappresentanti degli Stati membri (ministri o capi di governo, a seconda dei casi). È allo stesso tempo una istituzione che opera, in un certo senso, analogamente a un presidente dotato di poteri – fissa orientamenti, trova compromessi ecc. – e a una Camera alta, che condivide equamente il potere legislativo con il Parlamento. Questa è l’istituzione meno toccata dalle elezioni europee. La sua legittimità proviene dalle elezioni nazionali, non da quelle comunitarie, e il suo equilibrio politico può essere molto diverso da quello parlamentare. In effetti, il Partito popolare europeo – che attualmente è il gruppo più numeroso in Parlamento – non ha molto potere a livello nazionale, soprattutto nei grandi Paesi. Per il Consiglio, le elezioni europee sono, tutt’al più, un indicatore dello stato d’animo della popolazione, percepito attraverso una prospettiva nazionale.
Possiamo intendere la Commissione europea come l’organo amministrativo dell’Ue, sebbene sia dotata di competenze solitamente riservate a un governo in un contesto nazionale. La Commissione prepara proposte legislative, aiuta a negoziarne l’adozione da parte del Consiglio e del Parlamento, e poi le attua, anche emanando sotto delega la legislazione secondaria. Dovrebbe essere un attore indipendente e garante dei trattati. Questa neutralità non si ottiene facendola gestire interamente da figure apolitiche, ma piuttosto selezionando figure politiche diverse – in termini di origini nazionali e politiche –, che vengono messe a capo dei settori politici della Commissione, attraverso un processo che coinvolge gli Stati membri, il futuro capo della Commissione e il Consiglio.
La Commissione risente in misura limitata delle elezioni europee. Una volta selezionati, i potenziali commissari vengono esaminati dal Parlamento, che poi vota per accettare la Commissione che è stata composta. Ciò dà in pratica al Parlamento la possibilità di respingere i candidati, negandone l’approvazione. Si tratta di una scelta che è ben lungi dal costituire una selezione diretta dei commissari attraverso il voto popolare, ma in compenso garantisce un equilibrio tra la legittimità del Consiglio e quella del Parlamento riguardo alla costituzione della Commissione.
Quanto al presidente della Commissione, le cose vanno in maniera leggermente diversa. In vista delle elezioni del 2014, era invalsa l’idea di dare più peso democratico a tale carica, secondo il sistema dello spitzenkandidat. Di che si tratta? I partiti politici europei presentano un candidato a capo della loro campagna e, a suo tempo, il Consiglio individua come presidente della Commissione il candidato del partito che ha ottenuto più seggi. Così è accaduto ai tempi della Commissione Juncker, nel 2014. Tuttavia in seguito gli Stati membri, poco convinti del tenore democratico di quella modalità e ancor meno convinti circa Manfred Weber, allora candidato del Partito popolare europeo (Ppe), nel 2019 hanno accantonato questa pratica, per scegliere invece Ursula von der Leyen (connazionale e dello stesso partito di Weber).
In teoria, il sistema dello spitzenkandidat è stato ripreso per il 2024, ma in modo poco convinto. Nessuna formazione politica può realisticamente sperare di detronizzare il Ppe come primo partito in Parlamento. A sua volta, il Ppe, sapendo di non avere punti di riferimento nelle capitali nazionali, ha scelto di nuovo von der Leyen come candidata, con una votazione piuttosto deludente, non tanto perché ella incarni l’attuale linea del partito, ma piuttosto perché è ritenuta accettabile dagli Stati membri.
Il terzo e ultimo attore principale dell’Ue è il Parlamento. Esso ovviamente è il più legato alle elezioni, che ne determinano in modo diretto la composizione. Negli ultimi decenni, soprattutto dopo il Trattato di Lisbona, esso si è rivelato un vero e proprio contrappeso del Consiglio. Nell’ambito della procedura legislativa ordinaria, che oggi costituisce la forma più comune di adozione delle leggi europee, i testi vengono proposti dalla Commissione. Dopo un periodo di negoziati tra Commissione, Consiglio e Parlamento, noto come «trilogo», i progetti, previa approvazione, vengono adottati sia dal Parlamento sia dal Consiglio. Poiché per lo più i testi vengono ratificati anche da maggioranze qualificate in seno al Consiglio, il Parlamento ha più margine di manovra nei negoziati, non dovendo affrontare il compito, spesso impossibile, di accontentare ogni singolo Paese. Oltre al ruolo legislativo, esso ha voce in capitolo sul bilancio dell’Ue e controlla il lavoro della Commissione. Funge anche come luogo d’influenza, dove gli eurodeputati – i membri del Parlamento europeo –, attraverso mozioni e dichiarazioni, cercano di attirare l’attenzione sia del pubblico in generale sia dei responsabili politici su varie questioni.
Recenti sondaggi danno un’idea della direzione che prenderà il Parlamento nel 2024. I cristiano-democratici (Partito popolare europeo) dovrebbero più o meno mantenere i loro seggi e rimanere il primo gruppo del Parlamento. I socialisti (Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici, S&D) potrebbero subire un lieve calo, che tuttavia non impedirà loro di mantenere la loro posizione come seconda forza. I centristi-liberali (Renew Europe) probabilmente andranno incontro a un calo più sensibile, passando dal terzo al quarto posto. Un destino analogo potrebbe toccare ai due gruppi più piccoli: gli ecologisti (Verdi – Alleanza libera europea) e la formazione della sinistra radicale (La Sinistra). Nel frattempo, i conservatori euroscettici (Conservatori e riformisti europei, Ecr) e gli euroscettici di estrema destra (Identità e democrazia, Id), sono destinati ad aumentare in modo rilevante, al punto da ottenere il terzo posto, sottraendolo a Renew.
Queste evoluzioni potrebbero comportare un significativo spostamento a destra del Parlamento. Finora la coalizione centrista (Ppe+S&D+Renew) è stata compatta riguardo a molte questioni fondamentali, come il bilancio, gli affari economici e monetari, quelli esteri o il mercato interno. A volte è stata superata da una coalizione di centrosinistra (Sinistra+Verdi+S&D+Renew), soprattutto per quanto concerne le libertà civili, le questioni sociali o l’ambiente. Esisteva anche una possibile coalizione di centrodestra (Renew+Ppe+Ecr+qualche Id), soprattutto su agricoltura, politica industriale e commercio. Ovviamente si tratta di un quadro molto semplificato, perché la disciplina di gruppo non è rigida come nelle assemblee nazionali e non tiene conto dei partiti non allineati[1].
Il grande cambiamento avverrà nel segno dell’impossibilità numerica di una coalizione di centrosinistra. Questo darà al Ppe un grande potere d’influenza sul passaggio a norme ambientali meno vincolanti o a politiche migratorie più rigide. Il Ppe avrà la possibilità di pretendere testi di suo gradimento nel quadro di una coalizione centrista, oppure di spingere tali questioni verso una coalizione di centrodestra. Quanto ai partiti populisti e di estrema destra, essi eserciteranno un’attrazione ben maggiore al momento di convincere il Ppe a formare una coalizione.
Concezioni divergenti del progetto europeo
Veniamo ora alle questioni chiave in gioco nelle elezioni del 2024. Una prima linea di frattura c’è tra i partiti che sostengono il perseguimento di una più stretta integrazione europea e quelli convinti che l’integrazione sia già andata troppo oltre e debba essere arginata, se non ridotta – o addirittura azzerata –, per preservare la sovranità degli Stati.
La dichiarazione della Comece si basa sulla convinzione che il progetto di integrazione europea stia effettivamente portando pace, libertà e prosperità nel nostro continente e promuova ancora gli ideali della comunità e della dignità della persona umana che hanno ispirato i suoi padri fondatori, molti dei quali erano cristiani. Sebbene non sia perfetta, l’Ue riesce comunque a riunire attorno a un tavolo molti Paesi, che altrimenti potrebbero considerarsi concorrenti tra loro. Qualsiasi tentativo di indebolire i meccanismi che vincolano insieme gli Stati europei potrebbe spingerli verso una dinamica centrifuga. Una visione lucida della storia europea e della situazione attuale dimostra che la buona volontà, da sola, non è sufficiente.
Inoltre, si può sostenere che l’integrazione europea rientri a pieno titolo in una migliore comprensione del principio di sussidiarietà. Nell’insegnamento sociale cattolico, la sussidiarietà non è soltanto un principio legalistico riguardante l’attribuzione dei poteri, ma costituisce un’ingiunzione positiva, e valida a qualsiasi livello del potere politico, a responsabilizzare attivamente tutti gli attori a esso affidati: famiglie, organizzazioni della società civile, entità economiche e politiche o territori. Non si tratta di preservare il potere di qualcuno, ma piuttosto di condividerlo, al servizio del bene comune. Aprendo le sue frontiere, l’Ue ha anche dischiuso opportunità di cooperazione transfrontaliera e ha dato la possibilità a molti cittadini, organizzazioni e imprese di creare reti o di cogliere opportunità che fino ad allora il proprio ordinamento nazionale aveva tenuto fuori dalla loro portata.
Neanche la sovranità dello Stato è un idolo. Pur riconoscendo l’importanza di preservare il patrimonio culturale e spirituale delle nazioni e sottolineando la necessità di uno Stato ben ordinato che sappia tutelare il benessere dei suoi cittadini, l’insegnamento sociale cattolico non esita a trasferire i poteri a entità sovranazionali, quando se ne presenta la necessità, soprattutto quando i Paesi vi si sono liberamente vincolati. L’esortazione apostolica Laudate Deum offre un esempio recente di questa visione, perché chiede esplicitamente la creazione di meccanismi applicativi, comprese le sanzioni, per salvaguardare l’efficacia degli impegni internazionali sul clima. E ciò vale ancora di più quando il livello sovranazionale si dota di proprie strutture democratiche.
Rapporto con i valori cristiani
Anche l’atteggiamento che i partiti presentano rispetto al retaggio cristiano dell’Europa è una questione impegnativa, che invita gli elettori alla prudenza di giudizio. Da un lato, alcuni partiti hanno elevato l’identità cristiana a vessillo di battaglia. Bisogna valutare, tramite un esame attento, se tali riferimenti vengano esibiti con sincerità e con rette intenzioni. È opportuno verificare, in particolare, se i valori cristiani vengano promossi prestando attenzione alla più ampia cornice della dottrina sociale cattolica, compresi i valori della compassione e dell’attenzione ai più vulnerabili, o se vengano sostenuti in modo selettivo, solo nella misura in cui contribuiscono a propugnare un sistema nazionale identitario, a creare divisione tra gruppi o a far sì che elementi sensibili sotto il profilo culturale vengano sfruttati per ottenere vantaggi politici. Se così fosse, ci si potrebbe chiedere se il partito che fa tali riferimenti stia effettivamente cercando il bene comune o se non stia semplicemente strumentalizzando il cristianesimo per i suoi interessi particolari.
Per questo motivo un comunicato redatto dalla Comece, insieme con le istituzioni rappresentative europee protestanti e ortodosse[3], ha osservato che «la paura motiva alcuni [elettori] a cercare soluzioni e sostegno spirituale in una versione oggettificata e strumentalizzata della tradizione, a volte mascherata da un appello ai “valori tradizionali”. In questi casi, i concetti di “patria” e “religione” vengono usati come armi». Di conseguenza, la dichiarazione invita a «lottare contro la strumentalizzazione dei valori cristiani per interessi politici e nella prospettiva delle narrazioni etno-razziali».
Allo stesso tempo, «l’Unione europea non è perfetta e […] molte delle sue proposte politiche e legislative non sono in linea con i valori cristiani e con le aspettative di molti dei suoi cittadini», riconosce il comunicato Comece. Nella dichiarazione congiunta delle Chiese si sottolinea inoltre che «gran parte dei cittadini che guardano con fiducia al futuro europeo attraverso il prisma dei valori cristiani […] si sentono ora emarginati, in quanto non hanno la possibilità di esprimere le proprie posizioni e opinioni in modo autonomo e distinto. Notiamo inoltre l’esclusione di qualsiasi riferimento adeguato ai valori cristiani in testi rilevanti dell’Ue». In effetti, molti partiti e uomini politici sono cauti riguardo all’essere associati a istituzioni religiose. Anche negli ambienti europei si è spesso visti con sospetto, quando si ha a che fare con istituzioni basate sulla fede, soprattutto per quanto riguarda l’evoluzione delle norme sociali nel campo della sessualità, dell’etica e dell’uguaglianza di genere.
A questo punto, però, la soluzione non può venire dall’ingaggiare una guerra culturale. Probabilmente questo sarebbe uno sforzo inutile e distruttivo. I rappresentanti delle maggiori confessioni cristiane in Europa auspicano il dialogo, non la guerra. Ciò richiede che i politici europei riconoscano l’importanza della loro eredità cristiana. Occorre anche trasformare il modo in cui viene condotto il dialogo tra Chiese, istituzioni e partiti politici, in modo che le prospettive cristiane possano essere ascoltate e considerate equamente, come previsto dall’articolo 17 del Trattato Ue. I politici di cui l’Europa ha più urgente bisogno non sono quelli che si proclamano strenui difensori della tradizione: sono piuttosto quelli disposti a entrare in buona fede e con buona volontà nel dialogo con le Chiese e con la società civile, alla ricerca di soluzioni politiche che siano nella linea del maggior bene comune.
Ecologia e cambiamento climatico
La tutela dell’ambiente e la mitigazione del cambiamento climatico sono probabilmente due delle questioni più controverse di questa campagna elettorale. Negli ultimi mesi si è assistito a uno sgretolamento, o addirittura a un’inversione, delle politiche del Green Deal (che mira a preparare l’Europa alla transizione climatica) e della Farm to Fork Strategy (indirizzata a introdurre l’agricoltura in una prospettiva più sostenibile). Progetti di legge che un tempo sembravano avere discrete possibilità di essere approvati sono stati pesantemente ridimensionati, quando non furtivamente accantonati. Nei discorsi politici si sono fatte strada narrazioni tossiche, in primo luogo quella che i partiti populisti sfruttano in tutta Europa, ossia l’ondata di reazioni popolari contro le politiche «verdi» e la contrarietà delle popolazioni a tutto ciò che comporta costi aggiuntivi, tenta di imporre comportamenti particolari o semplicemente sembra «punitivo».
Un’altra narrazione si oppone alla tutela dell’ambiente e alla capacità di finanziare la transizione verso le energie verdi. Secondo questa visione, l’eccessiva regolamentazione in materia ambientale sovraccarica l’economia, rendendo le imprese europee incapaci di competere con quelle americane e cinesi. E se l’economia è debole, le risorse fiscali saranno insufficienti per finanziare il passaggio alle energie verdi. Una narrazione simile dice che gli agricoltori europei sono sovraccarichi di obblighi ecologici e quindi impossibilitati a coprire i costi e a competere sul mercato mondiale. Un’altra ancora è che l’iperprotezione ambientale contrasta con la necessità di estrarre più minerali per alimentare la transizione verso le zero emissioni di carbonio.
Sebbene al centro di ciascuna di queste narrazioni ci siano questioni reali, il modo in cui esse vengono inquadrate tende a condurre alle stesse conclusioni errate: gli obiettivi o gli impegni ecologici devono essere ridimensionati, in quanto indesiderati e controproducenti. Invece, il buon comportamento dovrebbe essere incoraggiato con incentivi finanziari, iniziative private e innovazione tecnologica. In effetti, il monito di papa Francesco nella Laudate Deum suona più che mai attuale: «Corriamo il rischio di rimanere bloccati nella logica di rattoppare, rammendare, legare col filo, mentre sotto sotto va avanti un processo di deterioramento che continuiamo ad alimentare. Supporre che ogni problema futuro possa essere risolto con nuovi interventi tecnici è un pragmatismo fatale, destinato a provocare un effetto-valanga»[4].
Alla luce dell’ecologia integrale promossa dal Magistero recente e in linea con i moniti scientifici, gli elettori dovrebbero considerare quanto seriamente i diversi partiti politici si prendano cura della nostra casa comune. Considerata l’urgenza di contrastare il degrado del nostro Pianeta, non è sufficiente che come soluzione per uscire dalla crisi si dia priorità alla crescita economica. Come minimo, i partiti politici devono presentare alternative credibili alle leggi e alle politiche che denunciano.
In contrapposizione alle narrazioni sopra ricordate, andrebbero poste le seguenti domande: se le politiche volte a cambiare lo stile di vita insostenibile della maggior parte degli europei sono impopolari, in che modo è possibile concepirle meglio e ripartirne meglio i costi? La transizione verso l’energia verde è un cambiamento esclusivamente tecnico della nostra produzione di energia, o piuttosto ci dà l’opportunità di mettere in discussione quanto produciamo e consumiamo? L’agricoltura europea potrà effettivamente essere salvata eliminando alcuni vincoli ambientali, o è necessario un ripensamento più globale, affinché essa possa resistere ai cambiamenti climatici futuri?
Traiettoria economica e coesione sociale
Secondo un sondaggio Ipsos svolto per Euronews[5], quattro priorità su cinque indicate dai cittadini europei sono di natura economica: reperimento di soluzioni adeguate contro l’aumento dei prezzi; riduzione delle disuguaglianze sociali; sostegno alla crescita economica; contrasto della disoccupazione. La quinta è la lotta all’immigrazione clandestina.
Gli ultimi mesi hanno visto l’umore guastarsi, perché i politici hanno messo in rilievo la discrepanza che c’è tra quel discorso e i sentimenti popolari. Sono cresciuti gli appunti sul ritardo dell’Ue rispetto agli Stati Uniti in termini di innovazione, sull’incapacità di competere e sulla concorrenza sleale che minaccia la prosperità dell’Europa. È emersa la consapevolezza che l’Europa potrebbe non trarre alcun vantaggio dalla transizione pulita, visto che il mercato dei pannelli solari e delle auto elettriche è minacciato dalla produzione cinese. L’eccessiva regolamentazione, la mancanza di flessibilità e i vincoli ecologici sono stati regolarmente indicati come le cause che ostacolano la crescita e la competitività.
Il mandato dell’Unione europea è quello di promuovere la prosperità tra i suoi membri. Pertanto, non solo è legittimo, ma è anche necessario che il prossimo Parlamento affronti le questioni economiche. Tuttavia, è altrettanto necessario che venga garantito un giusto equilibrio tra sviluppo, sostenibilità e diritti sociali e umani. Il destino della direttiva Ue relativa alla due diligence di sostenibilità delle imprese è un esempio di ciò che è a rischio. Il testo mirava a incoraggiare la responsabilità aziendale, obbligando le aziende a identificare e ad affrontare le minacce ai diritti umani e all’ambiente presenti nella loro catena di fornitura. Il 15 marzo, in nome della competitività, il Consiglio ha deciso di fare marcia indietro rispetto a quanto concordato in precedenza con il Parlamento e di restringere fortemente la portata della legge: essa si applicherà solo alle imprese più grandi, e gli aspetti chiave di una filiera – per esempio, il riciclaggio – sono scomparsi dal testo.
Gli elettori dovranno valutare attentamente quale partito offra il giusto equilibrio nel loro contesto nazionale. Sebbene il mandato diretto dell’Europa sulle questioni sociali sia limitato rispetto alle leve ancora in mano alle singole nazioni, restano ancora questioni su cui il prossimo Parlamento potrà agire, come individuato da Caritas Europa nel suo Memorandum elettorale[6]: «Un reddito minimo adeguato, assistenza a lungo termine e incentrata sulla persona, sostegno all’infanzia e alla famiglia, migliore accesso ai diritti dei lavoratori, accesso ad alloggi adeguati e convenienti, condizioni di lavoro dignitose, anche per gli operatori sanitari, e non discriminazione», in linea con i 20 princìpi del Pilastro europeo dei diritti sociali.
Migrazione
In un discorso pronunciato a Marsiglia nel 2023,papa Francesco ha lanciato all’Europa un appello urgente: «I migranti vanno accolti, protetti o accompagnati, promossi e integrati. Se non si arriva fino alla fine, il migrante finisce nell’orbita della società. Accolto, accompagnato, promosso e integrato: questo è lo stile. È vero che non è facile avere questo stile o integrare persone non attese, però il criterio principale non può essere il mantenimento del proprio benessere, bensì la salvaguardia della dignità umana»[7]. Purtroppo, il tono attuale della campagna elettorale non va in quella direzione. I migranti sono spesso presentati come qualcosa da cui bisogna proteggersi, invece di essere visti come persone degne di protezione.
Nello scorso dicembre, le istituzioni europee hanno raggiunto l’accordo su un nuovo patto sulle migrazioni, che tende a un forte inasprimento delle politiche sulle frontiere (compresa la normalizzazione della detenzione) e sul trasferimento delle responsabilità di protezione a Paesi terzi in cambio di limitati miglioramenti nella solidarietà tra gli Stati europei. Questo patto migratorio è stato giudicato con severità da molti osservatori, tra cui molte Ong cristiane. In una dichiarazione congiunta di più di 50 organizzazioni, tra cui la Caritas e il Jesuit Refugee Service, si è affermato che il patto sull’immigrazione «normalizzerà l’uso arbitrario della detenzione per immigrati, anche per bambini e famiglie, aumenterà la profilazione razziale, utilizzerà procedure di “crisi” per consentire i respingimenti e riportare le persone nei cosiddetti “Paesi terzi sicuri”, dove sono a rischio di violenza, tortura e detenzione arbitraria»[8].Ciò nonostante, le posizioni si stanno spostando ulteriormente verso politiche più repressive. Ne troviamo un esempio lampante nel manifesto del Ppe, in cui si suggerisce l’adozione di un sistema di Paesi terzi sicuri simile alla «soluzione ruandese» promossa dai conservatori nel Regno Unito.
Considerando che l’Ue ha ampie competenze nel campo della migrazione e dell’asilo, il ruolo del Parlamento nel perfezionare e, auspicabilmente, umanizzare le politiche europee sarà decisivo. Occorre quindi prestare attenzione al modo in cui i partiti valutano la migrazione. Le legittime preoccupazioni per la situazione economica non possono essere utilizzate come giustificazione per ledere la dignità di una persona. La migrazione comporta certamente molti problemi e può esercitare una pressione sociale ed economica sulle benestanti società di destinazione che non può essere ignorata. Tuttavia, i migranti, in quanto persone, non possono essere strumentalizzati come capri espiatori.
L’attenzione dovrebbe essere rivolta anche alle cause profonde della migrazione. Le proposte fatte dai partiti politici su come rendere più equo il sistema commerciale internazionale, su come perseguire meglio gli aiuti allo sviluppo, su come mediare i conflitti o affrontare il cambiamento climatico, non possono essere scisse dalla realtà dei migranti che arrivano alle porte dell’Europa. Questa non può né sperare né ambire a isolarsi dal suo ambiente e dalle sue responsabilità internazionali.
Guerra in Ucraina e pace in Europa
È impossibile parlare delle elezioni europee senza toccare la guerra in Ucraina. Per l’Europa essa è un momento decisivo. A più di due anni dall’inizio dell’aggressione contro l’Ucraina, la valutazione fatta, in occasione del primo anniversario della guerra, dall’allora presidente della Comece, cardinale Jean-Claude Hollerich, fornisce tuttora un quadro di analisi rilevante, perché ha evidenziato «gli sforzi instancabili dei decisori europei nel fornire all’Ucraina adeguato e proporzionato sostegno umanitario, finanziario, politico, nonché militare. Il suo popolo ha il diritto di difendersi dalla brutale e ingiustificabile aggressione militare per vivere una vita animata da dignità, sicurezza e libertà nel proprio Paese indipendente e sovrano. Incoraggiamo fortemente i leader europei a mantenere la loro unità nella solidarietà con l’Ucraina durante e anche dopo la guerra, senza cedere alla stanchezza o all’indifferenza»[9].
Se il perseguimento della pace dev’essere l’obiettivo finale di tutte le politiche relative all’Ucraina, tale pace dev’essere duratura. Inoltre, per una questione di principio, solo la società ucraina dovrebbe determinare il proprio futuro, in modo che vengano rispettati tutti i suoi membri nelle loro particolarità, senza essere soggetta ad assimilazione forzata da parte del vicino. Non esiste quindi alcuna opposizione tra la politica che consente all’Ucraina di resistere all’aggressione e il desiderio di pace.
Non sembra per il momento che il monito espresso dal cardinale Hollerich, cioè che il sostegno militare sia proporzionato, corra alcun pericolo concreto di essere disatteso. Semmai, a questo punto la preoccupazione dovrebbe essere piuttosto quella se il sostegno dato all’Ucraina sia davvero adeguato, dato che la stanchezza si sta effettivamente facendo sentire. I leader europei si sono impegnati promettendo di sostenere l’Ucraina per tutto il tempo e nella misura che saranno necessari.
Ciò non vuol dire che non vi siano preoccupazioni da prendere in considerazione. Lo spostamento dell’Europa verso il riarmo, con maggiori spese militari e crescenti sforzi per coordinare meglio questi intenti a livello dell’Ue, può essere giustificato, purché sia effettivamente orientato all’autodifesa e all’autonomia strategica, nonché adeguatamente calibrato rispetto alle minacce che l’Europa si trova ad affrontare. Allo stesso tempo, esso non dovrebbe trasformarsi in una corsa agli armamenti, per non suscitare profezie di conflitto autoavveranti. Anche i personaggi pubblici dovrebbero prestare attenzione a non cedere a pose teatrali che esacerbano tensioni e paure.
Più in generale, il modo in cui i partiti politici si posizionano nei confronti dell’Ucraina rivela una concezione più ampia del progetto europeo. Si può accettare l’invasione di quel Paese come un dato di fatto, in un sistema internazionale dominato dal potere, sia esso economico o militare. In questa prospettiva, l’Unione non è quindi altro che un tentativo di tutelare gli interessi dei «membri del club» e, anche in questo caso, vanno innanzitutto preservati a tutti i costi gli interessi nazionali.
Dalla prospettiva opposta, sottolineando la necessità di sostenere l’Ucraina, l’Unione europea può essere vista come un’area di prosperità, democrazia e rispetto dei diritti umani in lenta espansione. Questo è un obiettivo meritevole ed è certamente il modo in cui l’Ue vuole presentarsi. È anche una meta difficile, che ci prospetta molti dibattiti, errori e controversie. Quali Paesi dovrebbero essere accolti nell’Ue? Che impatto avranno i futuri allargamenti sulla posizione politica e sul benessere economico degli attuali Stati membri? Quanto tempo si può ragionevolmente far aspettare un Paese prima dell’adesione? Come possiamo preservare la coesione politica, sociale ed economica dell’Ue, se ammettiamo Paesi più poveri? Nessuna di queste domande ha risposte facili, soprattutto quando si tratta di Paesi vasti come l’Ucraina. Probabilmente, alcune di tali questioni restano ancora da risolvere, a seguito dell’allargamento dell’Ue ai Paesi dell’Europa centrale e orientale.
In ciascun Paese, gli elettori dovranno valutare attentamente di chi si fidano per rappresentarli nell’affrontare tali questioni. Anche se il Parlamento europeo non avrà un ruolo guida in molte di queste tematiche (la difesa e l’allargamento rientrano nelle competenze del Consiglio), di sicuro l’umore catturato dalle elezioni influenzerà fortemente il modo in cui i politici nazionali e quelli dell’Ue affronteranno le decisioni future.
Conclusione
Non esiste un partito o un candidato perfetto per cui votare. La realtà della politica nella maggior parte dei Paesi europei, così come la situazione della Chiesa nella maggior parte delle società europee, fa sì che quasi ogni opzione dovrà essere un compromesso. Ma bisogna fare delle scelte. I cristiani non possono abdicare al loro giusto posto nel processo democratico. Spetta a ciascuno valutare in coscienza, dopo un’adeguata informazione e riflessione, dove il suo voto possa promuovere al meglio il bene comune e i valori cristiani a livello europeo.