“EGLI, CHINANDOSI COSI’, SUL PETTO DI GESÙ” (Gv, 13, 25). CHI E’ GIOVANNI, L’EVANGELISTA? PERCHE’ “IL DISCEPOLO CHE GESÙ AMAVA”? di d.Achille Tronconi

Articoli home page

Il parlarvi di Giovanni questa mattina lo ritengo uno dei regali più belli che possa farvi.
E’ una riflessione che nella mia vita dura da 20 anni, è un tormento che non ha preso soltanto la testa, ma mi ha attraversato la vita, tante volte, togliendomi il sonno, qualche volta togliendomi anche la ragione; aprendo ferite, consolando attese, sostenendo fatiche; sempre c’è stato con Giovanni un rapporto di conflitto, di desiderio, il volerlo capire.

Tutto ciò che ho letto su Giovanni mi ha sempre lasciato molto insoddisfatto, perché suggeriva, dava qualche nozione in più, qualche criterio esegetico, qualche parola spiegata meglio, qualche struttura, ma non riuscivo a trovare Giovanni. E allora mi sono accorto che quello che cercavo era la sua esperienza di Dio, forse la più alta, volevo arrivarci vicino, attingere ad essa. E’ questo che mi interessava; e mi interessava come chi resta affascinato fin da ragazzo da questa amicizia di Giovanni con Gesù – penso che sia la più bella che abbia mai visto la terra e i dati sono molto profondi. Pochi, ma abissali. Quante volte certe espressioni, certi incontri, certe parole del Vangelo che fanno riferimento a questa amicizia ci sbalestrano proprio completamente perché sei tu che devi fare lo sforzo di aderire, di riuscire a trovare il sentiero che ti porta a capire. Non è facile, è sconquassante, ma così – sono convinto – deve essere l’accostamento alla parola di Dio. Deve essere un tormento, un tormento d’amore. Non ci si arriva facilmente. A me fa impressione come certi esegeti o certe persone avvicinano la parola di Dio senza mai essere bruciati, senza mai essere sconvolti.

Ecco io questo l’ho provato soprattutto con il Vangelo di Giovanni. Non posso dire di amarlo pienamente, perché non si può amare il ferro rovente che ti segna il cuore: questo è il Vangelo di Giovanni, è il roveto ardente, è un’esperienza di Dio che continua a bruciare, un’amicizia che non ha mai avuto fine, ma è anche l’impresa grande, splendida che sento dentro alla mia vita, questa esperienza di Giovanni. Quindi è sicuramente uno dei doni più grandi che posso farvi: voi vedrete cosa farne.
Questo dice anche qual è l’approccio, quale sarà la spiegazione. Non sarà certo una lezione, ma un’esperienza.
Partiamo da quello che è stato il tormento nel tormento e per il quale solo un mese fa sono riuscito a trovare una risposta per ora soddisfacente. So già che non basterà, però, per ora, è soddisfacente e ve la voglio comunicare.

Mi sono chiesto più volte, con la libertà di chi ha fatto esperienza di materie profane come la psicologia, la filosofia e altre, mi sono chiesto con questa spigliatezza, che cosa significava questo discepolo che Gesù “amava di più” e non ho scartato nessuna ipotesi: ho voluto proprio essere molto libero, molto critico, molto insoddisfatto, di chiedermi perché c’è questa insistenza, questa definizione che sostituisce addirittura il nome. Lo hanno motivato come umiltà, nascondimento, oppure hanno ipotizzato che questa immagine del discepolo sia il cristiano, la figura collettiva, la figura individuale… Mi sembrano tutte delle grandi arrampicate sui vetri, tutto per non entrare nel cuore del discorso, per mancanza di libertà, di spigliatezza, forse per mancanza di tanto desiderio: per entrare in Giovanni ci vuole un desiderio incredibile.

Io ho trovato soddisfacente questa risposta: l’errore di fondo, che non mi faceva vedere per tutti questi anni, è che per capire questo amore maggiore per Giovanni da parte di Gesù bisognava non guardare a Gesù ma a Giovanni.
Questo Giovanni che si nasconde continuamente, questo Giovanni che lo trovi soltanto quando guardi l’amicizia di Cristo – cioè in un rapporto – questo Giovanni che esiste solo in rapporto al Padre. Guardando Giovanni ho capito cos’è questo amore maggiore; è una risposta facilissima – lo si dice spesso che la risposta è facilissima quando ci si arriva! Giovanni è colui che corrisposto all’amore di Cristo: questa è la risposta.

E’ l’unico che fin dall’inizio ha deciso di amarlo anche quando non lo capiva. Solo a cent’anni forse ha capito, ma quando ne aveva pochi e ha incontrato Gesù il suo cuore ha deciso di amare quel maestro, di amarlo comunque – questa persona così strana, incomprensibile, pericolosa – lui ha deciso di amarlo. Ed è per questo, ed è in questo la differenza: che un amore corrisposto è molto di più di una amore semplicemente donato. Giovanni è colui con cui Gesù ha avuto un’amicizia, perché l’amicizia, lo sappiamo, vuole necessariamente corrispondenza, come la figura di Maria di Magdala, l’altra grande amica che ha deciso di amarlo. Giovanni ha potuto vivere l’amicizia con Cristo e Cristo ha trovato in lui l’amicizia umana, un’esperienza profonda, vera, di amicizia.

Nel capitolo 13, a quello splendido e tremendo versetto 25, una di quelle cose che più mi ha segnato la vita, troviamo questo Giovanni che si stende sul cuore di Gesù. Esegeticamente non è certo il cuore del Vangelo – sappiamo che il punto massimo è la gloria di Cristo in croce, “Colui che hanno trafitto” – ma lo è nell’esperienza dell’apostolo Giovanni. Ed è rimasto nel Vangelo per questo, molto nascosto, messo lì in qualche modo, quasi forzatamente messo lì, nonostante lui. Ma per fortuna è rimasto, come piccolo segnale, nel senso di visibilità, di questo grande sentiero, di questa grande esperienza dell’amicizia di Gesù con Giovanni. Giovanni ha potuto aderire con tutta la sua vita al cuore di Cristo, un dono riservato a lui, ma certo non solo in quel momento. Penso che lo facesse d’abitudine, quando non capiva questo maestro, quando non capiva il suo comportamento, quando soprattutto lo sentiva distante, perché Gesù continuava ad essere colui che è altro. Quando lo sentiva impossibile da possedere, da trattenere – lo stesso gesto che fa Maria di Magdala – quando lo sentiva amore, ma un amore che ribaltava, che rimandava ad altro, un amore che faceva esplodere fuori, che non teneva lì, che non diceva questo è il Paradiso e facciamo tre tende, fermiamoci qui. Ma quando capiva che colui che gli era accanto era il Cielo e che quindi la sua amicizia, il suo tentativo di comunione, era continuamente messo a rischio, messo in forse proprio da questo, dalla stessa persona di Cristo, cosa faceva Giovanni? Quando viveva tutto questo e non capiva e soffriva e gemeva e non sapeva più che cosa inventare per il Suo Maestro, sicuramente, cosa faceva? Si sdraiava sul cuore, raggiungeva Gesù in questo suo amore. E’ questo che faceva. Aveva, come ogni amico, scoperto che c’è una via unica dove risolvere tutto e arrivare a Gesù che è questo cuore aperto, diventare la vittima di questo amore, il cuore che non avrebbe mai respinto nessuno

Ed è per questo che Giovanni non ha lasciato Gesù a differenza degli altri apostoli e discepoli.
Se Giovanni è presente nei momenti più importanti è perché c’era sempre. Non è come Pietro o Giacomo o Andrea, che erano chiamati a vivere i momenti solenni e ufficiali. Lui c’era sempre, era sempre col suo Signore e non pensava di scappare, perché sceglieva sempre questo sentiero d’amore, sempre percorribile, sempre, anche sotto la croce. Gli altri per rimanere avevano bisogno di capire, a lui bastava amare e lo sceglieva continuamente. Ed è per questo, io credo, che Gesù ha affidato sua madre a lui: perché parlavano lo stesso linguaggio. Anche Maria non capiva Gesù, ma sceglieva di amarlo. Anche Maria non possedeva Gesù, pur vivendo tutta questa dimensione di madre-figlio, questo dramma come l’amico. Questo dramma dove c’è una comunione di vita, ma la carne vuole riunirsi alla carne, vuole tornare ad essere una, non vuole che vi sia diaframma, separazione, in una comunione di vita. Quindi tutta la fatica, il dramma di percorrere questa comunione anche dentro alla carne con i suoi desideri di possesso, con le sue pazzie di gelosia, di rifiuto e di ricerca, capricci, con le debolezze, con la sua sessualità.

E’ un altro grande capitolo che Balthasar aveva bene intuito, qual era il rapporto di Giovanni con Maria, ma che è ancora tutto da vedere. Giovanni con Maria, quindi tutta la realtà della Chiesa, che loro giustamente rappresentano, perché hanno fatto la scelta di amare il Cristo e il Cristo sulla croce, il Cristo del Sabato Santo, il più difficile da amare, dove si è proprio vagliati, come dice la Scrittura: “passare al vaglio”. E’ lì che sei vagliato perché devi amare senza la presenza dell’altro, amare nell’assenza, amare colui che muore, colui che è morto, amare colui che non è rimasto per amor tuo. Pensatelo lo sforzo di Giovanni nel vedere il maestro andar via, lui che ha sempre creduto di essere amato – e quante volte Gesù glielo ha dimostrato!

Ma come? Muori e mi dici di amare, mi dici di amarmi e muori? Te ne vai e mi dici di amarti, te ne vai e sai che ti amo?! Sabato Santo!
Giovanni è diventato grande proprio in questo suo cammino travagliato di amicizia con il Cristo, in uno sforzo costante di amarlo comunque, continuamente. Ha tentato di essere fedele come è fedele Dio, fedele ad un amore deciso, scelto.
Egli ha capito bene il Padre, perché ha capito questa fedeltà d’amore.

Il momento del vaglio quando ti viene chiesto di amare ciò che ti sembra assente e che solo l’amore ti dà la certezza che c’è, che non è il nulla ciò che ami. E’ veramente quell’esperienza che ti fa restare solo con l’amore e nient’altro; tutto ti viene tolto.
Lì sul Calvario ci sono tre persone che si amano e nient’altro. Ma è tutto: si stanno perdendo vicendevolmente, ma, ostinatamente, per un dono di grazia infinita, si stanno amando. Gesù compie ancora un gesto d’amore per loro due, e loro due altrettanto tra di loro nei confronti del Maestro e del Figlio.

Certo il Calvario è il culmine, ma proprio per questo, perché ci sono tre persone che si amano, le quali non hanno quasi più nessun motivo umano per farlo, anzi, tutto è contro, tutto è buio. Allora fanno l’esperienza della forza dell’amore, quando questo amore è Dio stesso, è amore divino e un amore che sarà il meccanismo stesso della Risurrezione, un amore che non può essere fermato da niente. Ma per arrivare a vivere tutto questo, nella propria carne umana, sia per Maria che per Giovanni ci vuole tutta una vita di allenamento, di fatica, di ascesi perché altrimenti non ce l’avrebbero fatta, perché a loro è chiesto di vivere questo amore divino, questo amore vagliato, questo amore da risorto. E’ chiesto di viverlo non nonostante la loro carne, ma dentro alla loro carne, la carne che non è capace di questo amore, ma che esplode dentro a questo amore, la carne che non si sa contenere, la carne che va verso la trasfigurazione, una carne che geme, stride. Tutto viene tirato, tutto è inadeguato ad un’esperienza così d’amore. E allora il massimo livello della Grazia è proprio questo renderti capace di questo amore, senza polverizzare la tua umanità, la tua storia, la tua persona.

E’ veramente il velo di Mosè, per non morire nell’esperienza di Dio. E’ lo stesso Dio che ti preserva dall’esplosione, facendo questa esperienza che di per sé non sarebbe sostenibile. Un Dio quindi da amare, ma che ti dà la capacità di farlo, andando contro ad ogni misura, ad ogni regola, perfino contraddicendo se stesso – se questa è una contraddizione.

Maria e Giovanni sono riusciti a fare della proprio vita una preparazione continua di questa esperienza d’amore che sarà per tutti noi in Paradiso. Ecco, Giovanni è riuscito a fare della propria identità, la stessa identità dell’amico di Cristo, di colui che ha continuamente aderito. Lui non è altro che questo continuo tentativo di aderire al suo cuore – questo cuore impossibile – a questo cuore infinito. Non ha mai mollato Giovanni! Questa è fede! Credere continuamente che è possibile essere amici di Cristo, di quel Gesù lì, di quel Maestro.
Possiamo dire anche noi che ci chiamiamo amici, perché ci raccontiamo le cose udite dal Padre. Dov’è allora che si è veramente amici, soprattutto per noi, se non proprio quando ostinatamente stiamo col Padre nella preghiera, nell’ascolto, nella vita crocefissa, nell’obbedienza piena di gioia. E’ lì che noi siamo amici, è lì che risuona il comandamento: Amatevi gli un gli altri. La nostra amicizia parte dall’esperienza del Padre e di questo sapore di Padre sempre deve averne l’evidenza.
Chiediamo che questo sia vero, nonostante la nostra voglia di essere servi, non amici – servi indubbiamente meno bello di cristiani, preti – ma Gesù continua a dirci: “Ma io vi ho chiamati amici”
Dov’è la nostra risposta, dov’è il nostro cuore, lì impareremo la compassione, la preghiera di intercessione, la preghiera di benedizione per tutti gli uomini, per tutte le creature. Lì impareremo dallo sguardo di Maria.