È giunto il tempo di fare spazio alta creatività dello Spirito che si dona informe diverse e disegna la realtà senza preoccuparsi di omologarla. Allora, perché non cogliere la figura inedita del poliedro come “segno dei tempi” per la Chiesa?
Detesto ogni forma di papolatria. E dunque se assumo come segno dei tempi un’espressione di Papa Francesco non è per plageria, tutt’altro! In effetti da un po’ di tempo mi interrogo su “La Chiesa che verrà”. La Sirt, l’associazione di cui per nove anni sono stata presidente, ne ha fatto il tema della sua ricerca per i prossimi anni e da qui a breve articolerà sul tema il secondo dei suoi seminari propedeutici (Mazara 26-30 luglio 2016). Ovviamente si tratta di ripensare la Chiesa, di ripensarne e risanarne le strutture oltre che le vive membra. E parlando di strutture, la prima e più immediata considerazione chiama in causa il molteplice accadimento ecclesiale.
La cattolica si dà nella sua interezza in ciascuna Chiesa locale. E sin qui, richiamo (non è la prima volta) il dettato del concilio Vaticano II. La domanda però riguarda il come di quest’accadimento e, soprattutto, se parlando di Chiesa ci si possa tranquillamente attestare sulle Chiese locali di tradizione cattolico-romana. Le altre, quelle ortodosse, quelle evangeliche di diversa denominazione, sono anch’esse “Chiesa”? E ancora, sono altrettanto e pienamente “Chiesa” quelle altre che non vi si riconoscono e piuttosto rifuggono da ogni denominazione e collocazione? La domanda sorge a margine del volume Francesco e i pentecostali. L’ecumenismo del poliedro, scritto da monsignor Raffaele Nogaro, vescovo emerito di Caserta e dal prof. Sergio Tanzarella, docente di storia della Chiesa. Edito dal Pozzo di Giacobbe, il volume è una sorta di riflessione a margine della visita “anomala” di Papa Francesco, il 28 luglio 2014, alla Chiesa della Riconciliazione di Caserta, retta da Giovanni Traettino, pastore pentecostale.
L’esperienza pentecostale
Le Chiese pentecostali, si sa, mettono in imbarazzo. E non solo per la spiazzante presenza dello Spirito. Di fatto esse incrinano ogni pretesa strutturazione, e talora rifuggono da ogni denominazione. Diciamo pure che infastidiscono nella loro totale mancanza di gerarchia, nella loro irredimibile improvvisazione.
Le Chiese pentecostali sorgono in America nei primi anni del ‘900. Sono epigone di quel rinnovamento religioso, se vogliamo di ascendenza metodista, che assai spesso esplode in forme di straripante fervore. Di fatto a caratterizzare il gruppo primitivo è la nostalgia della comunità cristiana nascente, l’esperienza dell’effusione dello Spirito in essa. Da qui il cosiddetto “battesimo nello Spirito Santo”, una sorta di pentecoste personale. I fenomeni che l’accompagnano rendono critiche le comunità di provenienza; pare che ci si trovi dinanzi a gruppi di invasati. Ciò malgrado, le comunità si moltiplicano. Oggi, nel comune legante del “battesimo nello Spirito” ci si trova dinanzi ai cosiddetti pentecostali classici, a gruppi pentecostali all’interno delle Chiese cattoliche ed evangeliche, a comunità altre del tutto indipendenti di diversa nominazione. Ciò che interroga è la loro crescita esponenziale, in specie nella forma delle comunità autoreferenziali, magari originate dal carisma di un singolo pastore.
Se le comunità, le Chiese pentecostali hanno successo, se si assiste a un loro incremento mentre diventa sempre più inquietante la fuga dalle Chiese storiche, una ragione ci sarà e con tutta probabilità va ricondotta al bisogno del credente di essere protagonista della vita della comunità, di essere potenziato e valorizzato nella sua sensibilità. Il pentecostalismo, pur nelle sue varie forme, libera il credente da ogni forma ingessata e stantia che mortifica la sua creatività ed espressione. Insomma è un atto d’accusa alla nostra pastorale stereotipata, all’incapacità delle Chiese storiche di cogliere la domanda religiosa nella sua istanza di protagonismo. Diciamo che il fenomeno è al centro di un “dialogo ecumenico”, avviato nei primi anni 70, ma ancora in atto. Numerosi anche gli incontri internazionali ed è in uno di questi, svoltosi a Buenos Aires, nella Pentecoste del 2006, che Papa Bergoglio ha incontrato il pastore Traettino.
Ovviamente resta aperta la perplessità – di teologi e non – circa il “battesimo nello Spirito” e la sua carica “apocalittica”. E d’altra parte i criteri con i quali abbiamo accreditato le Chiese – criteri che al pentecostalismo stanno stretti sino ad avversarli – hanno ancora una loro ragion d’essere? La forma ecclesiae è irreversibilmente unica e quell’unica è la norma? Ma ritorniamo alla visita di Papa Francesco a Caserta. È la visita all’amico pastore ma va da sé che il discorso non può giocarsi solamente nell’ambito di una relazione amicale. Né si può – è la moda del momento – ridurre il messaggio di un pontificato a sola pratica pastorale, come se la si potesse disgiungere dal messaggio e dall’elaborazione critica – teologica – del messaggio.
L’ecumenismo del “poliedro”
Nel recarsi di Papa Francesco a Caserta, intrattenendosi familiarmente con la Chiesa della Riconciliazione, ha giocato un ruolo non piccolo la persecuzione di cui, in Italia, sono stati oggetto i pentecostali dagli anni ’30 agli anni ’50. Persecuzione religiosa, certo, ma dovremmo chiamarla razzismo, dato che le misure emanate dal ministero degli interni – la circolare Buffarini Guidi è del 1935 ma resta in vigore sino al ’55 – precedono di poco le leggi razziali, e in qualche modo ne costituiscono un’avvisaglia. Di fatto la persecuzione colpisce fasce deboli, emarginate, il cui riscatto appare comunque pericoloso e la cui espressività religiosa viene apparentata alla malattia mentale. L’Italia repubblicana non ripudia il pregiudizio. Il pentecostalismo resta iscritto in un alone sovversivo e perciò lo si combatte, malgrado la Costituzione regoli altrimenti la libertà religiosa.
Se è rilevante, e lo è, la domanda di perdono di cui Papa Francesco si fa portatore, personalmente trovo ancora più provocatorio e teologicamente rilevante il fatto che si sia rivolto a quella comunità chiamandola “Chiesa”. Di fatto ha teorizzato una forma ecclesiae non riconducibile a un modello dato una volta per sempre e ha opposto all’immagine ingombrante e scontata della “sfera”, quella asimmetrica ed ecclesialmente inedita del “poliedro”.
Giustamente Sergio Tanzarella vi intravvede il tempo di una nuova ecclesiologia. «Francesco», scrive (p. 88s.), «mette in crisi il modello della sfera con la sua ossessiva e totale pretesa di identità delle parti […] che tende ad affermare la necessità di cancellare e negare le differenze. È il modello che ha prodotto ogni genere di persecuzioni e rispetto al quale Papa Francesco propone l’immagine del poliedro dove le diversità vengono accolte come ricchezza, né negate né annullate».
L’argomentazione è già presente nella Evangelii gaudium: «Il modello non è la sfera, che non è superiore alle parti, dove ogni punto è equidistante dal centro e non vi sono differenze tra un punto e l’altro. Il modello è il poliedro, che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità» (EG 236).
A Caserta il santo Padre così apostrofa i presenti: «Dal primo momento […] nelle comunità cristiane c’è stata questa tentazione: “Io sono di questo”; “Io sono di quell’altro”; “No! Io sono la Chiesa, tu sei la setta”» (p. 155). E prosegue: «Cosa sarebbe l’unità nella Chiesa: una sfera dove tutti i punti sono equidistanti dal centro, tutti uguali? No! Questa è uniformità e lo Spirito non dà uniformità! Che figura possiamo trovare? Pensiamo al poliedro: il poliedro è una unità, ma con tutte le parti diverse; e ognuna conserva e ha la sua peculiarità, il suo carisma. Questa è l’unità nella diversità» (p. 156). Di immagini che rendessero la forma ecclesiae nella storia ne abbiamo elaborate tante. La più perversa è stata quella della piramide, la cui verticalità era gerarchicamente compiuta. Una subdola catena di soggezione additava via via la condizione inferiore dei sottostanti, sino a negare al popolo di Dio ogni rilevanza.
Più vicino a noi, Paolo VI ha proposto i cerchi concentrici. Il loro dilatarsi alla fine segnala la centralità del cerchio di partenza, quello d’avvio. Non era una metafora gerarcologica, ma non compiva un vero e proprio salto di qualità. Le onde concentriche riproponevano un input iniziale ed era quello a contare veramente. Anche Papa Francesco ha giocato con la metafora della piramide, chiedendo di rovesciarla. Ma comunque la si collochi, la piramide resta tale: verticale e gerarchica.
Unità nella diversità
Il poliedro no. Le sue sfaccettature rifrangono diversamente la luce. Le sue forme non sono necessariamente identiche. Pur con il limite di ogni metafora, in esso c’è più spazio per la creatività dello Spirito il quale, donandosi diversamente, disegna le realtà senza preoccuparsi di omologarle. Se mai le scompagina come vento benigno, che liberamente soffia, liberamente conforta, liberamente consola. E allora, perché non cogliere la figura inedita del poliedro come «segno dei tempi»? Perché non porre mano a una forma ecclesiae che oltre la riforma accetti la sfida di una molteplicità di forme? Perché non pensare che le Chiese non debbano necessariamente concordare nella prassi come nella teologia, nella liturgia come nell’evangelizzazione? Le Chiese sono tali a prescindere e a renderle Chiesa è la presenza dello Spirito il quale soffia non si scompone certo dinanzi alle norme, alle definizioni, ai paletti. Oggi come sempre l’ammonizione dell’apostolo Paolo: «Non spegnete lo Spirito!» (1Ts 5,19). E forse venuto il tempo di espungere il termine “setta” e restituire “accuratamente” il nome di Chiesa a ogni comunità adunata dallo Spirito e nella Parola?