Il Pontefice parla della tragica situazione in Ucraina <br>e torna a denunciare il legame tra guerra e produzione di armi
Anzitutto la preoccupazione per la guerra — per tutti i conflitti, non solo quello in Ucraina — perché le guerre si fanno essenzialmente «per provare le armi che abbiamo prodotto»; ma anche il problema personale del dolore al ginocchio; e uno sguardo all’Italia e in particolare alla Chiesa italiana. Questa la “scaletta” del colloquio di ieri in Vaticano tra Papa Francesco e il direttore del «Corriere della sera» Luciano Fontana, presente anche la vicedirettrice Fiorenza Sarzanini.
Pubblicata oggi dal quotidiano milanese, l’intervista realizzata a Santa Marta prende le mosse dal conflitto nel cuore dell’Europa iniziato il 24 febbraio scorso, quando le armate russe hanno invaso l’Ucraina seminando morte e distruzione. «Il primo giorno di guerra ho chiamato il presidente ucraino Zelenski al telefono», ricorda il Pontefice. «Putin invece — spiega — non l’ho chiamato. L’avevo sentito a dicembre per il mio compleanno ma questa volta no, non ho chiamato. Ho voluto fare un gesto chiaro che tutto il mondo vedesse e per questo sono andato dall’ambasciatore russo. Ho chiesto che mi spiegassero, ho detto: per favore fermatevi». Lo stesso appello a “fermarsi”, per un cessate-il-fuoco, rilanciato più volte dal vescovo di Roma durante gli appuntamenti domenicali di preghiera con i fedeli presenti in piazza San Pietro. «Poi ho chiesto al cardinale Parolin, dopo venti giorni di guerra, di far arrivare il messaggio a Putin che io ero disposto ad andare a Mosca» prosegue Francesco nella “ricostruzione” con i due giornalisti, sottolineando il ruolo del suo segretario di Stato — definito «davvero un grande diplomatico, nella tradizione di Agostino Casaroli» — il quale «sa muoversi in quel mondo: io confido molto in lui e mi affido».
«Certo era necessario — dice ancora il Papa — che il leader del Cremlino concedesse qualche finestrina». Ma, è la constatazione, «non abbiamo ancora avuto risposta e stiamo ancora insistendo; anche se temo che Putin non possa e voglia fare questo incontro in questo momento». Eppure, si domanda il Pontefice, «tutta questa brutalità come si fa a non fermarla? Venticinque anni fa con il Rwanda abbiamo vissuto la stessa cosa», commenta tornando con il pensiero al genocidio nel Paese africano più volte denunciato da Giovanni Paolo II .
Interpellato sulle possibili cause del dramma ucraino Francesco ipotizza «un’ira facilitata» forse inizialmente dall’«abbaiare della Nato alla porta della Russia. Un’ira che non so dire se sia stata provocata, ma facilitata forse sì» puntualizza, aggiungendo di non saper «rispondere» — essendo «troppo lontano» — «all’interrogativo se sia giusto rifornire gli ucraini». Però «la cosa chiara è che in quella terra si stanno provando le armi. I russi adesso sanno che i carri armati servono a poco e stanno pensando ad altre cose». Del resto, chiosa, «le guerre si fanno per questo: per provare le armi che abbiamo prodotto», come «avvenne nella guerra civile spagnola prima del secondo conflitto mondiale», dice a titolo di esempio. Su questo il Papa non ha dubbi: «Il commercio degli armamenti è uno scandalo, pochi lo contrastano. Due o tre anni fa a Genova è arrivata una nave carica di armi che dovevano essere trasferite su un grande cargo per trasportarle nello Yemen. I lavoratori del porto non hanno voluto farlo. Hanno detto pensiamo ai bambini dello Yemen. È una cosa piccola, ma è un bel gesto. Ce ne dovrebbero essere tanti così», auspica riproponendo il tema a lui caro di “una guerra mondiale a pezzi”.
In proposito afferma: «Il mio allarme non è stato un merito, ma solo la constatazione delle cose: la Siria, lo Yemen, l’Iraq, in Africa una guerra dietro l’altra. Ci sono in ogni pezzettino interessi internazionali. Non si può pensare che uno Stato libero possa fare la guerra a un altro Stato libero». E, soggiunge, «in Ucraina sembra che sono stati gli altri a creare il conflitto. L’unica cosa che si imputa agli ucraini è che avevano reagito nel Donbass, ma parliamo di dieci anni fa. Quell’argomento è vecchio. Certo loro sono un popolo fiero. Per esempio quando per la Via crucis [del Venerdì santo al Colosseo, ndr] c’erano le due donne, russa ed ucraina, che dovevano leggere insieme la preghiera, loro ne hanno fatto uno scandalo. Allora ho chiamato Krajewski che era lì»: il cardinale elemosiniere era infatti stato inviato da Francesco in Ucraina come proprio rappresentante per le celebrazioni pasquali. «E lui — chiarisce il Papa — mi ha detto: si fermi, non legga la preghiera. Loro hanno ragione anche se noi non riusciamo pienamente a capire. Così» le due donne «sono rimaste in silenzio».
Perché gli ucraini «hanno una suscettibilità, si sentono sconfitti o schiavi» visto che «nella seconda guerra mondiale hanno pagato tanto tanto. Tanti uomini morti, è un popolo martire. Ma stiamo attenti anche a quello che può accadere adesso nella Transnistria», avverte il Pontefice annunciando anche che al momento il gesto simbolico di una visita in Ucraina non è praticabile. «A Kiev per ora non vado» afferma ricordando di aver già inviato nel Paese i cardinali Michael Czerny, prefetto del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, e il già citato Konrad Krajewski, «che si è recato lì per la quarta volta. Ma io — ribadisce — sento che non devo andare. Io prima devo andare a Mosca, prima devo incontrare Putin. Ma anche io sono un prete, che cosa posso fare? Faccio quello che posso.
Se Putin aprisse la porta…» chiosa lasciando il pensiero sospeso. Allora gli intervistatori evocano il nome del patriarca della Chiesa ortodossa russa. «Ho parlato con Kirill — risponde Francesco — 40 minuti via “Zoom”. I primi venti minuti con una carta in mano mi ha letto tutte le giustificazioni alla guerra. Ho ascoltato e gli ho detto: di questo non capisco nulla. Fratello noi non siamo chierici di Stato, non possiamo utilizzare il linguaggio della politica, ma quello di Gesù. Siamo pastori dello stesso santo popolo di Dio. Per questo dobbiamo cercare via di pace, far cessare il fuoco delle armi. Il patriarca non può trasformarsi nel chierichetto di Putin. Io avevo un incontro fissato con lui a Gerusalemme il 14 giugno. Sarebbe stato il nostro secondo faccia a faccia, niente a che vedere con la guerra. Ma adesso anche lui è d’accordo: fermiamoci, potrebbe essere un segnale ambiguo».
In definitiva, il Papa asserisce che «per la pace non c’è abbastanza volontà; la guerra è terribile e dobbiamo gridarlo. Per questo ho voluto pubblicare con Solferino», casa editrice il cui nome rimanda alla sede del quotidiano milanese, «questo libro che ha come sottotitolo Il coraggio di costruire la pace. Orban, quando l’ho incontrato, mi ha detto che i russi hanno un piano, che il 9 maggio finirà tutto. Spero che sia così, così si capirebbe anche la celerità dell’éscalation di questi giorni. Perché adesso non è solo il Donbass, è la Crimea, è Odessa, è togliere all’Ucraina il porto del Mar Nero, è tutto. Io sono pessimista ma dobbiamo fare ogni gesto possibile perché la guerra si fermi».
Ecco allora che lo sguardo si sposta sull’Italia, la quale secondo il Pontefice «sta facendo un buon lavoro. Il rapporto con Mario Draghi è buono, è molto buono. Già in passato, quando era alla Banca centrale europea, gli ho chiesto consiglio. È una persona diretta e semplice. Ho ammirato Giorgio Napolitano, che è un grande, e ora moltissimo Sergio Mattarella. Rispetto molto Emma Bonino: non condivido le sue idee ma conosce l’Africa meglio di tutti. Di fronte a questa donna dico chapeau».
E sul cambiamento nella Chiesa italiana, dice: «Spesso ho trovato una mentalità preconciliare che si travestiva da conciliare. In Paesi come l’America latina e l’Africa è stato più facile. In Italia forse più difficile. Ma ci sono bravi preti, bravi parroci, brave suore, bravi laici. Per esempio una delle cose che cerco di fare per rinnovare la Chiesa italiana è non cambiare troppo i vescovi. Il cardinale Gantin diceva che il vescovo è lo sposo della Chiesa, ogni vescovo è lo sposo della Chiesa per tutta la vita. Quando c’è l’abitudine è bene. Per questo cerco di nominare i preti, come è accaduto a Genova, a Torino, in Calabria.
Credo che questo sia il rinnovamento della Chiesa italiana. Adesso la prossima assemblea dovrà scegliere il nuovo presidente» della Conferenza episcopale italiana (Cei); «io cerco di trovarne uno che voglia fare un bel cambiamento. Preferisco che sia un cardinale, che sia autorevole. E che abbia la possibilità di scegliere il segretario, che possa dire voglio lavorare con questa persona». Forse per questo la mente corre al cardinale gesuita Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano dal 1979 al 2002, morto nel 2012, di cui Francesco ha riletto un articolo “perfetto” dopo l’11 settembre 2001 sul terrorismo e la guerra. «È talmente attuale che ho chiesto di ripubblicarlo sull’“Osservatore Romano”. Continuate sui giornali — raccomanda — a indagare la realtà, a raccontarla. È un servizio al Paese di cui vi ringrazierò sempre», conclude.
Il colloquio si era aperto con una frase purtroppo ricorrente in questi giorni: «Scusatemi se non posso alzarmi per salutarvi, i medici mi hanno detto che devo stare seduto per il ginocchio», aveva esordito rimarcando: «Ho un legamento lacerato, farò un intervento con infiltrazioni e si vedrà. Da tempo sto così, non riesco a camminare. Un tempo i papi andavano con la sedia gestatoria. Ci vuole anche un po’ di dolore, di umiliazione».