DIO STUPISCE SEMPRE:  Elia e il soffio di una brezza leggera – 1Re 9-21 (Fausto Negri)

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Buona parte della nostra energia deriva dall’”attività simbolica” personale, dall’appassionarci ad immaginare, credere, dare vita a progetti, partendo dai contenuti del proprio sé, della propria anima. L’assenza di questa attività provoca una grave mancanza di energia con depressione e generale atonia. E quando si è spenti, depressi, con disturbi psicosomatici la vita diventa “difficile da digerire”.

A livello biologico «le cellule cerebrali sembrano voler ricevere istruzioni su cosa fare; infatti quando il loro impiego abituale sparisce, loro incominciano a rispondere alla migliore opportunità successiva». Se non gliela indichiamo noi stessi, ci penserà un genitore invadente, un dittatore prepotente, un guru donatore di suggestioni, un politico venditore di illusioni. «Secondo le scoperte neuro-scientifiche degli ultimi 20 anni «noi diventiamo, neurologicamente, ciò che pensiamo».

Noi  vediamo  le  cose  esattamente  come  le  pensiamo.  Eliot  raccomanda:  <<Fate attenzione  a ciò  che  pensate,  pensate  cose  belle  e  buone,  perché  le  dita  dei  vostri pensieri modellano senza tregua il vostro volto>>. Non è che la vita ritorni sempre uguale; siamo noi che non sappiamo riconoscerne la varietà e la ricchezza. In questo siamo tutti un po’ ciechi. Elia nel buio della caverna e della notte Elia entra in una caverna per passarvi la notte.

La caverna e la notte richiamano un luogo buio, in cui non ci si vede. Richiamano però anche l’attenzione: l’io esiste nell’attenzione, nel silenzio, raccogliendosi e non disperdendosi.

Varie sono le cause per cui può accadere che una persona, anche se ha dieci diottrie, non riesca a vedere quello che ha davanti. Oggi tutti i processi di maturazione tendono in direzione opposta alle caratteristiche troppo umane di un cuore di bimbo. Le anime dei nostri bambini sono sotto assedio. La loro spiritualità è confiscata.

Abbiamo perso lo sguardo contemplativo e amoroso sulle cose, uno sguardo da bambini.

  • La paura e la confusione chiudono gli occhi.
  • L’ignoranza è l’ostacolo più potente per il campo visivo: provate ad aprire gli occhi ad una persona che vuole ignorare la realtà!
  • L’ipnosi, poi, spegne gli occhi lasciandoli aperti. Sto pensando, ad esempio, ai ragazzi ipnotizzati da un videogioco violento;

Non è solo l’utente a usare la tecnologia, ma è anche la tecnologia che usa l’utente. Ogni strumento ha un impatto su chi lo usa. Il cellulare elimina lo spazio. La Tv offre la possibilità di scegliere il mondo in cui vive con 500 comodi canali di sky. Nel 2010 negli Usa le ragazze adolescenti mandavano 4.050 sms al mese, mentre i ragazzi “solo” 2.539 messaggini. Quale tipo di comunicazione può avvenire in 160 caratteri? Con i neuroni bruciati da troppo mutitasking, facciamo fatica a leggere due pagine di seguito, o a scrivere qualcosa di più di un sms con 160 caratteri.

  • La cecità provocata da ideologie, come pure dal fanatismo, dalle pseudo-religioni tipo il tifo sportivo, la magia o l’astrologia…
  • Il buio che nasce dall’indifferenza. Se una persona «non la posso vedere”, finisco inevitabilmente per non vederla affatto.
  • L’indifferenza riguarda anche la fede: una volta convinti che nella religione non c’è nulla da sperare, questa cecità conduce l’uomo a cercare luce dove c’è tenebra, bellezza dove è banalità, pace dove è indifferenza, grazia dove è confusione.

Siamo tutti un po’ ciechi. Ognuno di noi ha qualche difetto “spirituale” di vista. C’è chi vede la propria vita da:

  • miope: vede solo ciò che ha sotto il naso, ma non sa sognare il futuro;
  • presbite: sogna sempre un futuro diverso, ma non vive il presente;
  • daltonico: per lui tutto è grigio: non riconosce i colori della vita, soprattutto quelli intensi;
  • strabico: non centra mai gli obiettivi importanti;
  • astigmatico: vede solo macchie, là dove invece ci sono punti luminosi;
  • cieco: è come i farisei del vangelo. Crede di vederci benissimo, ma gli manca la luce di quella fede genuina che rende l’occhi limpido e il cuore pieno di stupore.

Come dice Claudio Baglioni: «A volte, più che di un mondo nuovo, c’è bisogno di occhi nuovi per guardare il mondo». Stiamo perdendo la capacità di contemplare, di leggere in profondità, di commuoverci per le sfumature.

Tutti questi processi e difetti di vista infatti si sciolgono se anche noi abbiamo il desiderio di camminare con fatica nel deserto dei nostri giorni, di sostare nella caverna del nostro cuore per poi fare esperienza di Dio… se gridiamo a Dio invocandolo nella preghiera… se usciamo all’aperto e gli chiediamo con fede di vedere noi stessi, il prossimo e la realtà tutta così come lui la guarda.

La realtà come è? Il bicchiere è mezzo vuoto o mezzo pieno? Più vediamo ed entriamo nel reale come è, più siamo dei viventi (e non dei vissuti) e più ci realizziamo. Se Dio è Dio, il massimo è vedere la realtà così come la vede Dio.

Lo stupore

Siamo attratti da ciò che è bello, ma purtroppo pare diffondersi rapidamente una certa cultura del non-bello: quartieri cementificati, parchi trascurati, aria inquinata…

Tatuaggi e piercing… Volgarità, comportamenti sciatti. Alla novità pare essere subentrato il disincanto, all’interesse l’indifferenza, allo stupore l’assuefazione, al

desiderio l’insofferenza, ai colori il grigio uniforme, alla creatività la monotonia. L’unica possibilità di sopravvivenza pare essere il ritorno alla meraviglia, allo stupore, al “cuore puro”: esso è come uno specchio, che deve essere ben pulito per poter riflettere l’immagine autentica della realtà.

Nel Vangelo apocrifo di Tommaso, Gesù afferma: <<Chi si stupisce, regnerà>>. Povia cantava: <<I bambini fanno oh!… I cretini fanno boh!>>. Occorre salvare l’attenzione e salvare almeno lo stupore. Il primo effetto della preghiera è “uno sguardo nuovo su tutto e su tutti”: «Noi camminiamo per mezzo della fede e non ancora per mezzo della visione» (2Cor 5,7).

Quando si fissa lo sguardo su Dio, sul suo amore, si arriva a vedere, per grazia, la

realtà con i suoi occhi: «La comprensione della fede è quella che nasce quando riceviamo il grande amore di Dio che ci trasforma interiormente e ci dona occhi nuovi per vedere la realtà» (Lumen fidei, 26).

L’orante diventa capace di vedere oltre, in profondità, di andare oltre, anche nella

sofferenza: «La fede non è luce che dissipa tutte le nostre tenebre, ma lampada che guida nella notte i nostri passi, e questo basta per il cammino» (Lumen fidei, 57). La preghiera tenta, così, a farsi vita, permea tutta l’esistenza. Non fa più preghiera, ma la vita diventa preghiera.

Il silenzio

Un giorno il discepolo chiese al Maestro: “Io non sento Dio. Come posso sentirlo?”. E il Maestro:

  1. Metti a tacere le voci fuori (chiacchiericcio, continuo parlare).
  2. Metti a tacere le voci dentro (pensieri).
  3. Metti a tacere le voci del passato (rabbie, odio, rancori, paure che continuano a gridare).
  4. Metti a tacere le voci che vuoi sentire (le nostre aspettative su ciò che Lui ci dovrebbe dire).
  5. Fatto questo lo sentirai chiaro perché la sua voce è chiara e presente.

Sul monte Carmelo il Signore era stato al gioco: al silenzio mortale di Baal, aveva contrapposto una fiamma divorante capace di prosciugare le acque e incendiare legna bagnata. Sul monte Oreb il cammino di ritorno alle origini iniziato da Elia alle sorgenti del fiume Cherit giunge al punto culminante. Dio concede a Elia di ripercorrere le grandi teofanie con cui aveva tratto il popolo dall’Egitto: un forte vento d’oriente aveva diviso il mare. Giunto alle falde del monte Sinai il popolo aveva assistito a un terremoto, segno della presenza divina sul monte. Una colonna di fuoco aveva accompagnato il viaggio di Mosé nel deserto, la stessa colonna di fuoco che era passata in mezzo alle carcasse degli animali divisi da Abramo, la notte in cui stipulò l’alleanza con Dio. Forse la stessa fiamma con la quale aveva sconfitto Baal. Ora però Elia s’avvede che vento, terremoto e fuoco sono vuoti della presenza divina. Il Signore non era nel vento, né nel terremoto, né nel fuoco; il Signore si rivela ad Elia in una voce di silenzio che svanisce, come potrebbe essere tradotta l’espressione ebraica. Qôl demamâ daqqâ: voce del tenue mormorio.

La strada intrapresa sul monte Carmelo nella lotta contro Baal si rivela fallimentare. Ecco qui la risposta all’inquietante domanda del precedente capitolo: se Dio non avesse risposto non sarebbe accaduto nulla. Avrebbe anche potuto non rispondere il Signore nella sfida contro i profeti di Gezabele, perché il Signore non era in quel fuoco. Le forze della natura sono sottomesse all’imperscrutabile agire di Dio, ma il Signore non è nelle forze della natura.

Se nella nostra società «l’uomo è diventato un’appendice del rumore» (Max Picard), si fa sempre più urgente l’esigenza che ciascuno ritrovi la propria umanità attraverso la riscoperta del silenzio e l’apprendimento dell’antichissima arte di “ascoltare il silenzio”. La tradizione spirituale non solo cristiana ha sempre riconosciuto l’essenzialità del silenzio per una vita interiore autentica. «La preghiera – ha detto il Savonarola, che pur di discorsi appassionati ben si intendeva – ha per padre il silenzio e per madre la solitudine». Solo il silenzio, infatti, rende possibile l’ascolto, cioè l’accoglienza in sé non soltanto della parola pronunciata, ma anche della presenza di colui che parla. Il silenzio è linguaggio di amore, di profondità, di presenza all’altro. Del resto, nell’esperienza amorosa il silenzio è spesso linguaggio molto più eloquente, intenso e comunicativo delle parole.

L’ascolto e l’adorazione

Il Signore parla al cuore Il comando del Dio di Israele è uno solo: Shemà Israel! Ascolta Israele, ascolta quella voce sottile di silenzio che parla al tuo cuore. Questo è il cuore del messaggio di Elia. Il silenzio di Dio non è per l’uomo un castigo, ma è richiamo profondo e sottile che sale dal di dentro del cuore. Un richiamo che appartiene al suo essere a somiglianza di Dio, è nostalgia di quella brezza leggera che ventilava l’Eden quando Dio passeggiava con Adamo al calar del sole.

Prima di fare qualcosa per Dio, lui chiede di uscire dalle nostre caverne, dai nostri luoghi bui, dalla nostra rozzezza, inciviltà, buio. Chiede di lasciarci amare. L’adorazione è il “bocca a bocca” con Dio. È come l’esperienza dell’innamoramento, che indica qualcosa di coinvolgente, non puramente razionale, ma nemmeno irrazionale; il percepire che l’altro chiede una risposta totale e il disporsi a darla volentieri, con la testa e con il cuore.

Ed ecco sentì una voce che diceva: «Che fai qui Elia?». Egli rispose: «Sono pieno di

zelo per il Signore degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita».

Elia è un uomo appassionato (<<Sono pieno di zelo>>) e angosciato (<sono rimasto solo>>). Il Signore lo chiama fuori dalla caverna ed egli, poco a poco, diventa capace di stupore e di meraviglia. Osserviamo allora i vari passi che il Signore fa compiere ad Elia perché il suo sia un cammino di fede e di speranza.

Stupore di fronte alla natura.

Potremmo riascoltare la canzone “Meraviglioso” di Modugno, rilanciata dai Negramaro. Diceva Carlo Carretto: <<La prima cosa che mi ha dato coscienza dell’esistenza di Dio è stata la meraviglia!>>. <<Invitando alla meraviglia davanti al mistero del creato, la fede allarga gli orizzonti della ragione per illuminare meglio il mondo che si schiude agli studi della scienza>> (Lumen fidei, 34).

– Dio fonte di stupore. Dio è fascinosum et tremens (Rudolf Otto), affascinante e temibile, incantatore e datore di timore. 

Nell’A.T. Dio non si vede ma parla. Ora finalmente parla. È lui che cerca Elia, così come aveva cercato Adamo: <<Adamo dove sei?>>. Se la paura è l’anti-speranza, si dice che nella Bibbia Dio rivolga il suo invito “Non temere!” per 365 volte (come i giorni dell’anno solare).

La paura di Dio è la paura delle paure. La creatura che non ha più fiducia nel Creatore, lo sbagliarsi su Dio è il peggio che possa capitarci. Il primo di tutti i peccati è un peccato di fede. Dio non si stanca mai di perdonarci, siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono. Dio ci cerca sempre, siamo noi che ci stanchiamo di cercarlo.

Per Dio “in principio è la Parola” (Gv 1,1), per l’uomo “in principio è l’ascolto!”.

Dammi – chiede Salomone – «un cuore capace di ascolto» (1Re 3,9) (“un cuore docile” è traduzione sbagliata). La vera preghiera nasce là dove c’è ascolto: «Parla, Signore, che il tuo servo ti ascolta» (1Sam 3,9).

La preghiera nasce come risposta attiva della creatura nei confronti del Creatore. <<Sono pieno di zelo… Sono rimasto solo>>. Il cruccio di Elia proveniva dalla convinzione che la vera religione fosse morta, che la fede in Javhé fosse spenta in Israele. L’uomo non può liberarsi da solo. Egli non può essere redento semplicemente da una struttura esterna, ma viene redento solo mediante l’amore. Ciò vale già nell’ambito puramente intramondano. L’essere umano, però, ha bisogno dell’amore incondizionato. Se esiste questo amore assoluto con al sua certezza assoluta, allora – solo allora – l’uomo può essere redento, qualunque cosa gli accada nel caso particolare. E solo Dio, «che ci ha amati e ci ama tuttora sino alla fine» può assicurare un amore incondizionato, assoluto. La vera, grande speranza dell’uomo, che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio. La vita è relazione. E la vita nella sua totalità è relazione con Colui che è la sorgente della vita.

– Stupore di fronte a se stessi.

Dio introduce l’uomo in un’intimità inaudita, quando insieme al Figlio discende per prendervi dimora. Elia vive l’esperienza di essere nutrito, alimentato, rafforzato… e cercato, interpellato. La fede come dono, qualcosa che non si può pretendere ma che viene dato e il cui esserci dato ci sorprende, perché ha la connotazione del gratuito, del non dovuto. <<Grazie alla vita che mi ha dato tanto!>>, cantava Violetta Parra. E Gilbert Chesterton diceva: <<I bambini ringraziano la befana per i doni che ha lasciato nelle calze; perché io non dovrei ringraziare il buon Dio per le due meravigliose gambe che tutte le mattine metto nelle calze? >.

Elia ritrova la fiducia in se stesso. Essa è importante per ciascuno e per tutti, perché anche se l’altro fallisce, io ho fiducia in me e allora il fallimento non tiene in scacco la mia volontà di ripresa per un futuro diverso.

– Stupore di fronte alla propria missione.

Elia reimpara a sognare. Il sogno è gettare il cappello al di là della siepe per poi andare a riprenderlo. La speranza, scrive Tommasa d’Aquino, è il presente del futuro. Ha bisogno di cantori e attori che seguano le tre grandi regole dell’umana pedagogia: non avere paura, non fare paura, liberare dalla paura. Paura è un termine che deriva da pavere, cui è collegato il nostro termine pavimento. Essere battuto, percosso, livellato, una persona calpestata. Anche spavento deriva dalla stessa radice, col significato di gettato a terra, appiattito, bloccato. Risollevati, alza la testa, guarda in alto. Il profeta deve sognare donne e uomini che sollevino la testa e guardino lontano e oltre, perché la realtà non è solo quello che si vede.

Scrive Papa Francesco nella Lumen fidei: <<La fede non è un rifugio per gente senza coraggio, ma la dilatazione della vita>> (n.53). La speranza non è una attesa inerte, ma ci fa intraprendere progetti di vita fondati sul Vangelo, ci sostiene per non venir meno di fronte al Male e al Maligno in tutte le sue forme, soprattutto l’indifferenza che nega ogni speranza e si accontenta di “tirare avanti”.

È un insegnamento anche a noi come genitori, ed educatori. È fare ciò che poi incarna Gesù: presta attenzione alle piccole speranze della gente: dà risposte, anche piccole, e fa crescere la speranza. Non umilia mai sotto il peso di un ideale teorico, ma dà la forza del primo passo, dona tanta luce quanto basta al primo tratto di strada. Anche se non banalizza la colpa, fa sì che il bene di domani conti più del male di oggi.

La speranza porta ad essere operosi. Dice Dio: «Che fai qui Elia?… Su ritorna sui tuoi passi…>>. Il Signore si presenta come colui che apre nuove prospettive di senso, nuovi orizzonti di azione, prospetta nuove via d’uscita, nuovi possibili inizi.

L’orante diventa capace di vedere oltre, in profondità, di andare oltre, anche nella

sofferenza: «La fede non è luce che dissipa tutte le nostre tenebre, ma lampada che guida nella notte i nostri passi, e questo basta per il cammino» (Lumen fidei, 57). La preghiera tenta, così, a farsi vita, permea tutta l’esistenza. Non fa più preghiera, ma la vita diventa preghiera.

Consigliava San’Ignazio di Loyola: <<Impegnati con tenacia come se tutto dipendesse da te, con fiducia come se tutto dipendesse da Dio>>. Elia ritorna a valle. Per la sua ’azione ci sarà un nuovo re a Damasco, un nuovo re su Israele, e anche un discepolo che proseguirà il suo operato.

– Stupore per la compagnia degli uomini, per la comunità-resto di Israele.

Dio manda avanti la storia con un piccolo resto: è quanto basta alla sua potenza per salvare il mondo. La nostra fede è personale, ma non individuale. Dio ci inserisce in una compagnia di persone di fede e di speranza. Per questo dobbiamo arrivare ad avere più amore al tutto che al nostro “particulare”. C’è ancora poco il senso di appartenenza alla Chiesa diocesana e poco all’appartenenza alla Chiesa universale. Se non scatta questa molla rimarremo soli. La parentela di fede è la nuova parentela. Essa ci assicura e ci rassicura.

Ciò capita anche a una madre e a un padre quando, a un certo punto, devono cedere il figlio a un’appartenenza più grande. Si disinteressano di lui? No! Lo seguono dentro un orizzonte più ampio. Lo seguono facendo loro stessi un’esperienza di figliolanza, cioè di dipendenza: così dovremmo fare anche noi nei confronti della comunità.

– Stupore di fronte a tante persone di speranza.

Esistono tante persone buone, attente, profetiche… come Eliseo. Elia offre la sua fiducia ad Eliseo, perché solo così lui può sperare, e questo genera una spirale positiva. Elia gli lascerà il mantello, simbolo della trasmissione della sua missione. Anche oggi esistono profeti di speranza. Occorre andare alla loro scuola. Scrive Papa Francesco nella Lumen fidei: <<La fede non soltanto guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi: è una partecipazione al suo modo di vedere. In tanti ambiti della vita ci affidiamo ad altre persone che conoscono le cose meglio di noi. Abbiamo fiducia nell’architetto che costruisce la nostra casa, nel farmacista che ci offre il medicamento per la guarigione, nell’avvocato che ci difende in tribunale. Abbiamo anche bisogno di qualcuno che sia affidabile ed esperto nelle cose di Dio>> (18).

L’importante è seminare piccole oasi di fiducia, poi custodirle e coltivarle. SOGNO è l’altro nome della speranza. <<I have a dream>>: io ho un sogno di M.L.King. Dice Simone Weil: <<Il futuro entra in noi molto prima che accada>>. Perciò occorre tenere sempre presente che tra speranza realizzata e sognata c’è sempre un enorme scarto! Il carro di fuoco: Elia sale al cielo La speranza nasce solo dall’estasi, da un futuro visto non come prolungamento del presente ma come novità che viene. Il Totalmente Altro viene nella storia perché la storia diventi totalmente altra da quello che è.

Dopo la discesa di Elia dall’Oreb, compare dunque sulla scena Eliseo: di posizione agiata, lascia lavoro e famiglia. Elia lo prende per sé e per il Signore, gettandogli addosso il mantello. Eliseo accompagna così Elia nel suo ultimo viaggio. Toccano i luoghi significativi della Palestina e, mentre camminano insieme, Elia sale al cielo, nel turbine. Prima che il maestro se ne vada, Eliseo chiede l’eredità del primogenito; due terzi del bene paterno. Eliseo chiede due terzi dello spirito del profeta. Elia acconsente, ponendo una sola condizione: «Se mi potrai vedere quando verrò rapito lontano da te»: Eliseo deve essere capace di vedere quello che gli altri non possono e non sanno vedere.  Un carro di fuoco si frappone fra i due, toglie Elia alla vista di Eliseo. Il carro è simbolo di forza, di protezione. Il fuoco è l’elemento che ha segnato la vita di Elia. La sparizione nel fuoco appare come una dimensione di gloria, che rivela la realtà della missione profetica: il sacrificio. Elia “sale” al cielo come l’olocausto.

Rapito in cielo, il profeta è simile ad Enoch, che «camminò con Dio e non fu più perché Dio l’aveva preso» (Gen 5,24). Alcuni elementi lo avvicinano anche a Mosè (il cammino nel deserto, la teofania sul monte, le acque divise, il passaggio del potere al discepolo, la sparizione).

Eliseo, che si era sentito orfano e si era lacerato le vesti, raccoglie il mantello del maestro (entra nella sua sfera) e con quel mantello apre le acque del Giordano: assume così i criteri di Elia e i suoi modi di compiere la missione.

Il tempo vitale parte dal futuro

Quando il Risorto salirà al cielo, non sarà un carro di fuoco ma una nube che lo sottrarrà allo sguardo dei discepoli. Egli è andato a prepararci un posto: «La fede è congiunta alla speranza perché, anche se la nostra dimora quaggiù si va distruggendo, c’è una dimora eterna che Dio ha ormai inaugurato in Cristo, nel suo corpo» (Lumen fidei, 57). È, questa, una costante della storia della salvezza. Gesù lascerà ai suoi discepoli il compito di continuare la sua missione, donando il suo Spirito. E sarà così nel “vento gagliardo” di Pentecoste (At 2,1-4) che “la voce del silenzio impalpabile” si farà presente; sarà la definitiva manifestazione del Dio che dà speranza. Se manca l’”Oltre” non si investe, non si guarda più avanti, non ci si sposa, non si compone l’Infinito del Leopardi, non si costruisce la cattedrale di Fidenza. E non si dipinge il futuro.

Charles Wesley in un inno scrive: <<La fede, la grande fede, vede le promesse, e si rivolge ad esse soltanto. Sorride davanti all’impossibilità e grida “Sarà fatto!”>>. I grandi profeti guardano l’oggi nella prospettiva del sogno e del futuro. Il tempo vitale parte dal futuro. Le prime comunità cristiane erano vitali proprio perché in esse l’attesa del futuro era appassionata, e incessante la supplica per il ritorno del Signore considerato imminente: <<Maràna tha! Vieni!>> (1Cor 16,22). Trattasi di una invocazione detta per forzare il giorno della venuta del Signore. Dice Dio nell’Apocalisse: <<Io sono colui che era, che è che sarà. Che è venuto, che viene e che verrà>> (Ap 1,8). È questo il suo nome.

CONCLUSIONE:

Dio non rimane pura Trascendenza, né totale immanenza ma, grazie alla fede/speranza, <<tutte le cose hanno in sé una TRASPARENZA, possono cioè

riflettere la bontà di Dio, il Bene>> (Lumen fidei, 33).

La bellezza non è laggiù né più lontano. È qui, ora, basta vedere le cose di quaggiù come sono plasmate dal Cielo.

Il mondo è bellissimo come è. Non occorre creare nuovi mondi, è sufficiente vivere

intensamente questo. Nel viaggio della vita tieni d’occhio la ciambella, non il buco!

Chiediamo al Signore di aiutarci ad imparare ad amare ogni centimetro quadrato del nostro mondo: il luogo dove viviamo e lavoriamo, le persone concrete che vi abitano (che sono più reali degli infiniti spazi virtuali di Internet e che sono più interessanti dei milioni di persone raggiungibili in rete).

Ora tocca a noi. La speranza è l’elemento che ci fa camminare, la base dei nostri passi. Come il suolo quando ci muoviamo.

Scriveva don Primo Mazzolari:

<<Il mondo fiorisce se io fiorisco,

cambia se io cambio,

diventa nuovo se io diventa nuova creatura.

Mi impegno allora non per rifarlo su misura,

ma per amarlo nella speranza.

La primavera incomincia con il primo fiore,

il giorno con il primo barlume,

la notte con la prima stella,

il torrente con la prima goccia,

il fuoco con la prima scintilla,

l’amore con il primo sogno>>.