1. In Dio non c’è desiderio di punirci, ma di salvarci
A volte pensiamo e, alcuni lo dicono, che questa pandemia è castigo di Dio, e, a volte, davanti ad una malattia, una sofferenza, una disgrazia, ci lamentiamo: “perché Dio mi ha trattato così…” “cosa ho fatto di male…”. C’è sotto l’idea che Dio ci abbia voluto punire. Così pensavano anche al tempo di Gesù. Se uno era colpito da una sofferenza, una malattia, una disgrazia, voleva dire che era stato castigato da Dio per i suoi peccati. Anche gli apostoli la pensavano così, ma sentiamo cosa dice Gesù: «In quel momento si presentarono alcuni a riferirgli circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù rispose: “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”» (Lc 13, 1-5).
C’era stato un fatto di crudeltà da parte di Pilato: aveva fatto uccidere alcuni ebrei della Galilea proprio mentre offrivano dei sacrifici a Dio. La gente pensava che quegli uomini dovevano essere dei grandi peccatori, se avevano subito una morte simile. Ma Gesù dice “no” e lo ripete anche riguardo quelle 18 persone che erano rimaste uccise nel crollo di una torre… “No”, Dio non agisce così! Dio, il Padre di Gesù Cristo e Padre nostro, non è un Dio che vuol punire, ma un Dio che vuol salvare. Gesù lo manifesta esplicitamente a Nicodemo, un fariseo che era andato a trovarlo di nascosto: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3, 16-17).
Un’altra risposta chiara, Gesù l’ha data, il giorno che, con i suoi discepoli, incontra un uomo che era cieco dalla nascita. I discepoli, presi dalla mentalità del loro tempo chiedono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori» (Gv 9, 2-3). La risposta di Gesù è ancora una volta netta: “no” Dio non castiga, anzi è un Dio che vuol perdonare e che vuol salvare (e di fatto poi fa il miracolo), ma per far questo Dio ha bisogno della nostra collaborazione.
2. Le sventure sono frutto del disordine creato dall’uomo
Questo è il punto. È bene che ci rendiamo conto che sono i nostri peccati, le nostre cattiverie, il nostro egoismo, che rovinano la nostra vita e quella degli altri. Non perché c’è un Dio che castiga, ma solo per la conseguenza naturale e drammatica dei nostri sbagli. Se un figlio si droga, ne soffrono tutti e anche gli altri componenti della famiglia ne portano le conseguenze. E non è forse il nostro egoismo che provoca tanta miseria nei paesi del terzo mondo! E l’inquinamento ed il buco dell’ozono ed il cambiamento del clima, non è forse un po’ colpa di tutti e non ne portiamo tutti le conseguenze? Dovrebbe essere evidente che siamo tutti coinvolti, gli uni gli altri, sia nel bene che nel male. È una fortuna che le cose stiano così, perché in contrapposizione con questa solidarietà nel male c’è una solidarietà nel bene più forte ed universale. La solidarietà che ci lega a tutti gli uomini di “buona volontà”, che, se espressa nel vissuto, può dare un volto nuovo a questo nostro mondo.
3. In questa pandemia, come in altre sventure, “Dio è accanto a noi”
«Dio è amore» (1Gv 4,8). Così Egli si manifesta in tutta la Scrittura santa, e Giovanni, dopo averne fatto esperienza, ce lo ricorda esplicitamente. Proprio perché Dio è Padre e Madre, è Amore-Misericordioso, così si rivela a Mosè: «JHWH, JHWH, Dio di misericordia (rahum) e di grazia (hannun), lento all’ira e ricco di amore (hesed) e fedeltà (emet)» (Es 34,6). Dt 32 (il famoso cantico di Mosè che ha rilevanza profetica) è un testo in cui il tema della paternità misericordiosa risuona per ben cinque volte nell’inno e sottolinea la permanenza e la costanza, dell’amore-misericordia divino che non si arresta neppure di fronte alla costanza nel male di Israele. L’avvio è, infatti, amaro: «Peccarono contro di lui i figli degeneri, generazione tortuosa e perversa» (v 5). Eppure alla sorgente della loro stessa esistenza e della loro costituzione in popolo c’era un atto di amore di Dio: «Non è JHWH il padre che ti ha creato (qnh), ti ha fatto e ti ha costituito?» (v. 6).
Quest’inno evidenzia la tensione che sempre intercorre tra la paternità fedele (è l’amore misericordioso) di JHWH e la filiazione ribelle di Israele: «sono una generazione perfida, sono figli infedeli» (vv. 19.20). Questa dell’infedeltà e del tradimento è un topos teologico della relazione padre figli secondo la visione profetica. Malgrado l’infedeltà, ai vv. 10-11, attingendo alle premure del padre/madre nei confronti dei figli, è detto: «Egli lo trovò in terra deserta… Lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio… Egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali». Sono questi tutti gesti di una tenerezza straordinaria che esprimono l’amore di Dio Padre e Madre. È questo il linguaggio tipico dei profeti, soprattutto di Osea il quale pur usando principalmente la simbolica nuziale, attraverso la quale rilegge l’evento dell’alleanza, non disdegna anche la simbolica paterna per descrivere il rapporto tra Dio e Israele.
4. La preghiera esperienza dell’abbraccio di Dio
Il dono divino della fede mette radici, si nutre e fiorisce, si esprime nella grazia della preghiera: lex orandi, lex credendi. Gesù rivelandoci e consegnandoci la preghiera del “Padre nostro” ha collocato la fede cristiana nell’orizzonte luminoso del rapporto filiale con il Padre. Ed è in forza di tale luce che possiamo comprendere anche il progressivo intensificarsi di questo rapporto nella preghiera dei salmi. In questa riflessione accenno brevemente ai salmi 90 e 91; in quest’ultimo si trova l’espressione che abbiamo scelto come titolo a questa riflessione, letteralmente: “… con lui io nella sventura” (Immo anokhi be-zarah). Questi salmi fanno parte del quarto libro dei salmi.
a) Il Salmo 90 è proposto come: Preghiera. Di Mosè, uomo di Dio. È una riflessione sapienziale sul tempo della vita umana, per dirci che essa è breve, dura settanta o al massimo ottant’anni: «Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, e il loro agitarsi è fatica e delusione; passano presto e noi voliamo via» (v. 10). La sapienza ha qualcosa a che fare con l’età, con il crescere degli anni e con la capacità di assumere l’invecchiamento: «Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio» (v. 12). Saggezza, sapienza è anche capacità di accettare che il “tempo” non sia sempre uguale a se stesso, che vi siano tempi diversi, non tutti ugualmente felici. Perciò, la prima indicazione che ci viene offerta per uscire dalla crisi è molto terra terra: ci vuole tempo. L’atteggiamento sapienziale richiesto all’uomo è dunque anzitutto quello dell’accettazione radicale della temporalità, e, nella consapevolezza del proprio limite, quello del lasciarsi plasmare quotidianamente dall’abbraccio di Dio: «Saziaci al mattino con il tuo amore: esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni» (v. 614.
b) Salmo 91. Una seconda indicazione, più profonda ci viene dal Salmo 91. Si apre con un’introduzione, nei primi due versetti, poi c’è il discorso del maestro (Mosé), dal versetto 3 fino al versetto 13, e poi, nei versetti 14 a 16, troviamo l’oracolo del Signore. È la voce stessa di Dio che interviene. L’orante è per lo più in silenzio. Anche questo è un modo di essere oranti: tacere ed ascoltare. Il salmo è una benedizione per chi cerca rifugio nel “nel segreto dell’Altissimo”, una parola straordinaria di assistenza e di consolazione. Questo non vuol dire che al credente non capiterà nessuna disgrazia. La vita umana è costantemente esposta a pericoli di ogni tipo, e lo specifico del salmo 91 sta proprio nell’essere “il canto contro gli incontri cattivi e le piaghe diaboliche”. Ma, il salmo ci ricorda: nel pericolo, nella disgrazia non sei solo, il Signore nella sua misericordia ti accompagna. Questa sua compagnia è espressa con una serie di verbi che evidenziano la presenza paterna e materna di Dio: mettere in salvo, innalzare al sicuro, rispondere, liberare, glorificare, saziare con lunghi giorni, far vedere la salvezza. Insomma, una pienezza di vita, che trova la sua cifra riassuntiva nella splendida espressione, priva di verbo, collocata al centro di questa lista: «Con lui io nell’angoscia (sventura)».
Sì, Dio è Emmanuele, Dio con noi (cf. Is 7,17; Mt 1,23), è il Nome più quotidiano del Dio rivelatoci dalle Scritture: sempre, ogni giorno, ogni ora, soprattutto nell’ora dell’angoscia, lui con noi (cf. Sal 4,2; 20,2; 50,15). Il Signore è sempre con la creatura umana, anche nella sventura. È per questo che l’uomo non sarà risparmiato dalle difficoltà, dall’angoscia, ma sarà liberato, e anzi glorificato. “Immo anokhi be-zarah” (con lui io (sono) nella sventura) («sventura» è termine che serve a indicare tutte le reali o possibili tribolazioni, le strettoie, le angustie, le difficoltà) vuol dire che il Signore non ci abbandona mai, neppure nell’angoscia, ovvero che lui stesso prende su di sé la nostra angoscia. La crisi ha scavato l’uomo, probabilmente lo ha anche ferito, ma gli ha dato una maggiore profondità di sguardo nel mistero della compassione di Dio.
5. Gesù, volto umano di Dio, entra concretamente nella sventura degli uomini
Al Giordano Gesù dà inizio alla sua missione pubblica e lo fa in modo molto umile: mettendosi in fila con i peccatori, lui che non aveva peccato. E proprio qui il Padre lo accredita: «Questi è il figlio mio, l’amato, in cui mi sono compiaciuto» (Mt 3,17). Poi, dai vangeli traspare in filigrana l’immagine di Gesù uomo della strada (cf Mc l0), che va incontro ad ogni uomo con uno sguardo ricco di misericordia e di compassione. L’umanità di Gesù è presenza di misericordia, segno della compassione di Dio per i deboli, per i vacillanti: si fa vicino a loro. Nei Vangeli spesso viene evidenziato che Gesù si commuove: «Gli si avvicina un lebbroso e lo supplica in ginocchio dicendogli: “Se vuoi puoi purificarmi”. Mosso a compassione (splancnisthéis), Gesù stese la mano, lo toccò: “Sì lo voglio; sii purificato”» (Mc 1,40-41). Più avanti Marco registra: «Sbarcando, egli vide una grande folla e ne ebbe compassione (esplancnìsthe) poiché erano come pecore che non hanno pastore. Allora incominciò a insegnare loro molte cose» (Mc 6,34). Gesù, col suo vissuto umano, racconta la misericordia/compassione che esprime la vita stessa di Dio. E lo fa con profonda libertà interiore (cf. Mt 22,16).
La misericordia di Dio, però, non è la lacrimuccia, frutto di emozione momentanea! È presenza rigeneratrice. Misericordia traduce la parola ebraica: rachamim, che incontriamo tante volte nella Bibbia. Rachamim è il plurale di rechem che designa il grembo materno in cui il bambino viene formato e portato, prima della nascita. Indica, quindi lo spazio fatto in sé alla vita dell’altro, spazio di comunione profonda di con-sentire, di com-patire, di con-gioire. Ma indica anche l’amore paterno e materno verso il figlio, il legame tra fratelli, designa, dunque sempre un rapporto che non può venir meno, forte come il legame viscerale e di sangue. La misericordia è dunque la più radicale protesta contro l’indifferenza, l’individualismo, il rifiuto dell’altro. La misericordia è mistero che genera vita e comunione, è dinamica di condivisione.
Gesù con il suo vissuto rende umano e palpabile il volto misericordioso del Padre. Più volte gli evangelisti registrano, come dicevamo prima, che Gesù “si commuove”. Non si tratta, ripeto, di un riflesso emozionale che essi ci vogliono descrivere, ma il termine sta ad indicare l’atteggiamento di misericordia così come l’abbiamo appena descritto. Nel vangelo di Luca (cap. 15), poi, Gesù soprattutto attraverso la parabola del padre misericordioso vuole consegnarci il volto di Dio che “commosso” corre incontro al figlio, lo abbraccia, lo bacia (gli dona il suo respiro) e gli ridona il “vestito bello”, la dignità di figlio amato che aveva prima di abbandonare la casa (cf. Lc 15,20-22). Proprio perché il Padre è così, Gesù si sente autorizzato ad accogliere tutti i pubblicani e i peccatori e di mangiare con loro (cf. Lc 15,1-2), perché desidera, come il Padre, che nessuno si perda (cf. Mt 18,14).
6. Gesù anche nella sua carne fa l’esperienza dell’angoscia
Gesù, da uomo, come tutti noi che viviamo nel corpo, viene introdotto in una situazione di fragilità, per cui, anche Lui è toccato dalla sventura e dall’angoscia. Gli evangelisti annotano che accusava stanchezza a tal punto da prendere sonno profondo, sulla barca, nella traversata in piena notte del lago e nemmeno la bufera delle onde lo riesce a svegliarlo. Accusava stanchezza e pure sete. Quel mezzogiorno in una delle sue traversate di regione sentì il morso di sete, seduto stanco a un pozzo di Samaria chiese da bere a una donna in cerca di pozzi. Come tutti noi non è risparmiato dalla fame, lo annotano gli evangeli: era mattino di inizio aprile, il giorno prima era entrato a dorso di puledro in Gerusalemme, quel mattino mentre usciva da Betania ebbe fame, ma il fico cui erano andati i suoi occhi aveva bellezza di forme ma vuoto di frutti. Ci rimase male.
I vangeli, a differenza di quello che avremmo fatto noi perché non apparissero in lui ombre di “debolezza”, non nascondono, non censurano, anzi raccontano senza esitazioni di sorta i suoi turbamenti. Un turbamento sino al pianto. Non stava certo nella figura dell’uomo forte, quello che non si scompone, che tiene alto il suo profilo in ogni evenienza. Invece si turba sino al pianto, narra il vangelo. Piange per morte di un amico. Né si preoccupò di nascondere quella che alcuni ancora chiamano fragilità e debolezza. Apertamente, tutti lo videro, e diedero testimonianza di quanto lui amasse l’amico Lazzaro. E si mostra a noi anche come un uomo che prova paura e angoscia (cf Mc 14,33-34): la sofferenza psicologica e morale di Gesù riferita anche dagli evangelisti chiarisce la lotta che l’uomo Gesù-Figlio di Dio, dovette sostenere nell’ora che stava per giungere (cf. Mc 11,33; 15,34). Leggiamo nei vangeli che, nell’orto, la vigilia della morte «cominciò a spaventarsi e a sentire angoscia». Confessò tristezza: «Ora – disse – l’anima mia è triste fino alla morte». E gli ulivi lo videro sudare sangue di morte.
Messia chinato sulle debolezze degli umani, abitò la nostra esistenza, una fragile tenda, un telo di vento. Abitò la nostra fragile carne con tutte le sue angosce. Nella fragilità, a sostegno, Gesù cercò il volto di Dio. Dobbiamo però, per debito di verità, aggiungere che nel momento della fragilità lui cercò anche i volti di amici, senza minimamente velare questo suo bisogno profondo di vicinanze anche umane. Mendicante di amicizie e di affetti. Il racconto del giardino narra quel suo andare in cerca degli amici e la desolazione di trovarli addormentati, quasi non ci fossero. Per tre volte disegnati nel racconto quei passi in ricerca, per tre volte raccontata la delusione: «Venne e li trovò addormentati… venne di nuovo e li trovò addormentati…venne per la terza volta e disse loro: Dormite pure e riposatevi. Basta! È venuta l’ora: ecco il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi e andiamo». La sua obbedienza di Figlio e la fiducia nel Padre (cf. Gv 4,34) gli consentirono il superamento della prova, nella fedeltà al progetto di Dio.
7. La parabola del buon samaritano icona del vissuto di Gesù.
Nel Vangelo di Luca 10,25-37, Gesù, provocato dal dottore della legge, che vuole metterlo alla prova, propone la parabola del buon samaritano. Mi piace vedere in questa parabola una sintesi allegorica del Volto di Dio rivelato nell’AT che Gesù ha pienamente espresso, reso visibile, attraverso il suo vissuto e i gesti quotidiani che abbiamo evidenziato. A leggere il brano in questa prospettiva siamo invitati e aiutati da alcuni Padri della Chiesa, a partire almeno dal II secolo e con una certa continuità, tra di essi: Agostino, Ambrogio e Ireneo di Lione, che vedono nel buon samaritano Gesù stesso, immagine vivente della misericordia del Padre. Il samaritano è una persona non gradita ai custodi della Legge e del tempio, ma qui è Gesù che dalla Samaria ha indurito il suo volto verso Gerusalemme (cf. Lc 9,51), Lui che con disprezzo viene indicato come «samaritano e indemoniato» (Gv 8,48), sta viaggiando verso Gerusalemme. Lui che è disceso si fa vicino e condivide la sventura dell’uomo. Sono significativi i verbi che indicano quello che Lui, il samaritano, “essente in viaggio”, compie:
Venne presso di lui: nell’umanità di Gesù, Dio si avvicina visita il suo popolo.
Vedendolo: mentre il sacerdote e il levita lo guardano a distanza e passano oltre, adesso nel samaritano, come nell’esodo, è l’occhio di Dio che vede la «miseria del suo popolo» e «scese per liberarlo» (Es 3,7).
Si commosse: è la caratteristica di Dio, in Gesù, buon samaritano, c’è la compassione di Dio verso i suoi figli che si manifesta esplicitamente in Gesù. In Lc 7,13: Gesù quando vede la vedova madre del figlio morto. In Lc 15.20: il padre del figlio perduto, quando lo vede tornare da lontano.
Essendosi avvicinato: Dio, in Gesù, al contrario del sacerdote e del levita, vuole restarci vicino nella nostra sventura. L’occhio buono vede e si avvicina.
Fasciò le sue ferite: Egli rimargina le ferite mortali dell’uomo, perché attraverso le ferite si perde il sangue, la vita.
Versando sopra olio e vino: è l’olio della dolcezza e il vino della fortezza.
Caricatolo sul proprio giumento: è come se lo caricasse sulle proprie spalle, se ne fa carico, considerandolo un tutt’uno con se stesso.
Lo condusse all’albergo: coinvolge nell’attenzione verso il povero malcapitato l’intera struttura sociale.
E si prese cura di lui: il verbo esprime la cura che Gesù ha avuto verso chi ha incontrato nella sua vita terrena.
Tutti questi verbi, che indicano comportamenti, scaturiscono dal primo gesto, quello fondamentale: venne presso di lui, senza preoccuparsi di se stesso, ma desiderando capire la situazione dell’altro. Qui sta la radicale differenza tra l’atteggiamento del sacerdote e del levita e l’atteggiamento del samaritano. Tutto il resto viene come conseguenza di questo. Si tratta di aprire gli occhi sulle situazioni e di lasciarsi coinvolgere, questo apre agli altri gesti della vicinanza, dell’intimità dell’attenzione. È quando chiudi gli occhi, che non c’è più nulla da fare. Quando chiudi gli occhi, a partire dal tuo personale egoismo, ti tagli fuori dalla possibilità di continuare l’opera di Gesù. Si tratta allora di rompere i muri del proprio egoismo e dell’indifferenza, tutto il resto viene da sé.
Il samaritano, vinto l’egoismo, progredisce al punto da comprendere che, a partire dalla sua presa di coscienza, deve diventare capace di coinvolgere anche le strutture, perché siano a servizio dell’uomo. «Abbi cura di lui, dice all’albergatore, e qualunque cosa in più dovrai spendere, lo pagherò al mio ritorno». «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo?». Il dottore della legge aveva chiesto: chi è il mio prossimo? E Gesù gli propone come farsi prossimo. Tutto è rovesciato. L’esperto della legge risponde: «L’avente fatto misericordia con lui». E Gesù gli dice: «va’ e anche tu fa’ altrettanto». Nella recente enciclica di papa Francesco, Fratelli tutti, al n. 81 ci viene suggerito cosa dobbiamo fare se vogliamo essere, nella nostra fragilità, una piccola goccia della tenerezza di Dio che visita la sventura dei fratelli:
«La proposta è quella di farsi presenti alla persona bisognosa di aiuto, senza guardare se fa parte della propria cerchia di appartenenza. In questo caso, il samaritano è stato colui che si è fatto prossimo del giudeo ferito. Per rendersi vicino e presente, ha attraversato tutte le barriere culturali e storiche. La conclusione di Gesù è una richiesta: “Va’ e anche tu fa’ così” (Lc 10,37). Vale a dire, ci interpella perché mettiamo da parte ogni differenza e, davanti alla sofferenza, ci facciamo vicini a chiunque. Dunque, non dico più che ho dei “prossimi” da aiutare, ma che mi sento chiamato a diventare io un prossimo degli altri».
Alberto Neglia