Purtroppo però, soprattutto nello spazio cristiano, anziché cogliere tutta la beatitudine possibile insita nella debolezza, si innalzano spesso inni alla fragilità. C’è una forte confusione nel linguaggio riguardo a debolezza, fragilità e vulnerabilità, e questo non favorisce certo un cammino autentico di crescita umana e cristiana. L’enfasi con cui si parla della fragilità e la si invoca quale giustificazione di molti comportamenti, è solo una strategia per catturare persone fragili ed esercitare su di esse un potere e un’attrattiva che non stanno nello spazio della carità e della solidarietà.
Le persone fragili vanno infatti aiutate ad accedere alla fortezza, che è significativamente una delle quattro virtù cardinali. La loro fragilità chiede piuttosto a chi le incontra di imparare a sentirsi vulnerabile: vulnerabilità non è fragilità! Nello svuotamento e nell’abbassamento in Gesù Cristo (cf. Fil 2,6-8), Dio si è fatto vulnerabile, vero uomo con una vita nella carne (sárx: Gv 1,14), e così si è mostrato solidale con noi fino alla morte. Le ferite, le stigmate della passione, rimaste anche nel corpo glorioso del Cristo risorto, raccontano questa vulnerabilità di Dio per sempre. Sì, in noi umani la vulnerabilità è luogo d’incontro con Dio e con gli altri: così non è una debolezza, ma è la nostra forza. Ecco come si possono comprendere le paradossali parole dell’Apostolo: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10).
Vulnerabilità significa capacità di essere feriti, apertura ed esposizione all’altro, e nasce da fiducia, rinuncia al controllo, desiderio di apertura all’altro. Dalla vulnerabilità nasce la fraternità, perché cade il muro dell’indifferenza, scompare il velo della legge (cf. 2Co 3,13-16) e il cuore di pietra si trasforma in cuore di carne (cf. Ez 11,19; 36,26). Per questo non è la fragilità che va cercata, perché essa, come ogni male e ogni povertà, ci è data dalla vita e dalle vicende in cui siamo immersi; bisogna invece cercare la fortezza, per essere liberati dalla fragilità e vivere in pienezza. La fragilità non sia dunque un alibi che nasconde l’impotenza o l’incapacità di prendere in mano la propria vita.
Vivere richiede di avere fiducia nella vita, di lottare in favore della vita e di amarla con tutte le proprie forze. L’esistenza di ciascuno di noi non è fatta di azioni eroiche e prodigiose, ma perde sapore e senso se la si consegna alla fragilità, all’indolenza, all’inerzia, all’inconcludenza. E la virtù della fortezza – sia chiaro – non ha nulla a che spartire con la durezza o la violenza, perché esige proprio una lotta contro gli impulsi mortiferi che abitano il cuore umano: essa richiede coraggio, audacia, determinazione e soprattutto perseveranza, con la quale – ci ha detto Gesù – è possibile “salvare” le nostre vite (cf. Lc 21,19).
Occorre pertanto più che mai vigilare per non essere sedotti da queste continue giustificazioni della fragilità, anche perché l’esperienza mi dice che molti finiscono di fatto per servirsi egoisticamente delle fragilità altrui, sempre difese, per difendere così anche le proprie; amano strumentalizzare le fragilità degli altri per conservare il potere esercitato su di essi psicologicamente o con inconsistenti accenti terapeutici. Nelle vite comunitarie e familiari si conoscono bene queste derive che impediscono una vera comunione e contraddicono un cammino comune, mentre giustificano all’interno della convivenza umana sentieri privi di qualsiasi convergenza e senza alcuna solidarietà fraterna.
Non confondiamo dunque fragilità con vulnerabilità e non dimentichiamo che la fortezza è una virtù cardinale, un vero e proprio cardine per la vita umana e cristiana.