Grazie di questo invito, di questa possibilità di riflettere insieme. I temi che affronteremo sono complessi e quindi chiedo scusa per la sintesi necessaria e per la semplificazione che dovrò adottare. Spero che avremo poi anche una fase dialogica. Parlerò infatti un’oretta,e poi avremo una seconda ora in cui mi sarà data l’opportunità, se vorrete, di precisare i buchi neri del ragionamento, se ve ne saranno di eclatanti.
Intanto il titolo, ‘Darsi pace’. Per capire l’intento di questa espressione, come io cerco di ascoltarla, di percepirla e di parlarne – ‘darsi pace’ in fondo è un modo di dire molto popolare in italiano – io credo che dobbiamo meditarla in rapporto al sottotitolo di questo incontro, che è ‘urgenza psicologica e necessità storica’.
Quindi per me darsi pace non è soltanto una pia aspirazione, pur giusta, legittima e positiva; né è soltanto un invito morale o intimistico. ‘Datte pace’, si dice a Roma, che vuol dire pure ‘statte fermo’. Non è questo, anche se forse farebbe bene anche un po’ ‘dasse pace’, alla romana, nel senso che poi vedremo. Ecco io cerco di ascoltare, di dire questa espressione, appunto, con un’urgenza e una percezione storica più profonde e radicali. Potremmo dire che darsi pace sia ormai una questione di sopravvivenza. Vorrei sentire questa espressione come una specie di motto per il XXI secolo, un motto politico, psicologico, spirituale e culturale ad ogni livello. E direi anche – se le parole poi assumono un giusto significato – una sorta di programma rivoluzionario, nel senso che capovolge, se anche minimamente vi entriamo, molte abitudini, molte consuetudini, molti sistemi, anche di pensiero, anche mentali.
Stasera io vorrei toccare solo tre punti, di un tema così complesso.
+ Inizialmente vorrei riflettere, in breve naturalmente, sul carattere estremo del nostro tempo, perché è comprendendo la natura estrema di questa fase storica che comprendiamo anche perché si parli di urgenza psicologica o di necessità storica di questo darci pace. Dobbiamo capire l’estremità del tempo, l’ultimatività di questo tempo in cui viviamo, quali caratteri abbia.
+ Il secondo momento rifletterà sulla natura di una nuova cultura che a me pare stia emergendo, sia pure ancora confusamente, e che tenta di rispondere a questa stretta dei tempi, in un modo per alcuni aspetti inedito; rifletteremo cioè sulla necessità di coniugare il livello psicologico, spirituale della nostra vita, con il livello storico, politico, del riordino, nella giustizia, anche a livello planetario. Cioè, rifletteremo sulla peculiarità di questo nostro tempo che ha bisogno di mettere insieme questi due livelli. Ecco che ancora il sottotitolo trova luce: ‘Darsi pace’ è urgenza psicologica e necessità storica in modo connesso; non si possono più separare questi due livelli.
+ Infine – ancora naturalmente in estrema sintesi – vedremo con semplicità, come possa funzionare uno di questi punti di connessione fra lavoro interiore, conoscimento interiore, trasformazione interiore, e trasformazione culturale, progettuale, anche a livello grande, a livello politico e a livello storico.
Dunque, il primo punto. La convinzione che noi ci troviamo, e da tempo, in un punto estremo della civiltà umana, attraversa in realtà tutto il XX secolo. Le grandi menti del XX secolo, in ogni ambito, erano perfettamente consapevoli di questo, e drammaticamente consapevoli. Poi ognuno interpretava a modo suo, naturalmente, ma Eliot o Heidegger, Jung o Kandinskij, Simon Weil o Bonhoeffer, insomma prendete chi volete tra le menti di un certo livello, e troverete una concordia universale nel ritenere che la soglia che stiamo attraversando abbia qualcosa a che vedere con la chiusura di un ciclo grande della storia; molto grande, anzi di più cicli, come se più cicli precipitassero in un grande punto di svolta, e di decisione. Vi cito soltanto una di queste grandi menti che è Romano Guardini, teologo cattolico italiano, naturalizzato tedesco, che può considerarsi anche uno dei maestri dell’attuale papa. Scriveva un libro, nel 1950, che intitolava La fine dell’epoca moderna, con trent’anni di anticipo sulla cultura post-moderna degli anni ’80 che ha avuto tanta fortuna, ma Guardini già nel ’50 scriveva un libro sulla fine dell’epoca moderna in cui diceva: “Con assoluta esattezza si può dire che da ora innanzi comincia una nuova era della storia. Da ora in avanti, e per sempre, l’uomo vivrà ai margini di un pericolo che minaccia tutta la sua esistenza e continuamente cresce.” Quindi una soglia ultimativa percepita nella sua drammaticità. D’altronde voi ricorderete che Giovanni XXIII, nella bolla d’indizione del Concilio – Humanae salutis – parla esplicitamente dell’apertura di una nuova era nella storia della Chiesa e del mondo. Quindi, questa coscienza è presente, è lancinante, anzi direi che le menti più acute del XX secolo hanno riflettuto essenzialmente sulla natura di questa svolta.
Che cosa sta finendo, e che cosa sta faticosamente tentando di emergere? Questo è stato l’interrogativo esistenziale, perché in fondo, come sappiamo, questo non vuol dire occuparsi di una storia che sta fuori di me; questo vuol dire che io vivo un travaglio di transizione di umanità dentro di me, nella mia biografia. Ora, in questi ultimi venti, venticinque anni, sembra che questa coscienza si sia molto affievolita; tante cose sembrano spente, direi tante intensità, c’è una mancanza d’intensità nella ricerca, nel pensiero. Ci siamo ridotti a dover aspettare Celentano per avere una parola diversa. Che quindici milioni di italiani si affrettino a vedere in TV un cantante che… insomma, ai miei tempi era considerato un po’ scemo… era bravo, ma un po’ scemo, un po’ matto …il molleggiato… era questo, no? Un cantante che… per carità, belle canzoni… ma che quindici milioni di italiani si debbano mettere lì ad aspettare che il ‘molleggiato’, in un quarto d’ora, venti minuti, dica due fesserie, due o tre banalità, insomma… questo ti dice che c’è una fame mostruosa di ‘parola’, di una speranza che dica qualcosa, che non sia il repertorio dell’ordinaria insensatezza sfornata ventiquattr’ore su ventiquattro dagli altoparlanti del conformismo di tutti i tipi, che ti raccontano sempre la stessa fregnaccia, una rappresentazione irreale del mondo, come non è! Non faccio nomi, ma non è così! il mondo non è come ce lo fanno vedere! e te lo continuano a far vedere tutti allo stesso modo. Allora uno spera che almeno Celentano dica ‘Il re è nudo’, dica ‘È tutta una fregnaccia’. Devi aspettare Beppe Grillo! Non è un caso che oggi siano i comici i veri maîtres à penser, quelli da cui uno aspetta qualcosa di veramente nuovo, e non le solite brutte e false storie. Quindi c’è indubbiamente un afflosciarsi della coscienza culturale in Europa. Se pensiamo che negli anni ’60 operavano attivamente in Europa persone di altro livello… insomma, c’era ancora Heidegger, c’era Ungaretti, c’era Jung ancora vivo quando io ero bambino, mica mille anni fa! Paragonate a chi c’è oggi e fatevi un quadro del perché questa coscienza di un cambiamento forte in atto – che poi, sotto sotto, è escatologica – non sia rappresentata. Poi ci sono anche altre motivazioni, ma lasciamo perdere…c’è un’intenzione dietro questo, c’è un’intenzione anche inconscia, automatica, delle cose. Diciamo che le cose oggi sono fatte perché tu abbia molte voglie e pochi veri desideri, quindi non c’è bisogno che tu pensi troppo, né che tu pensi ad alta tensione… perché c’è pensiero e pensiero. Il pensiero è come l’elettricità, va a voltaggi, noi siamo a bassissimo livello… un pensiero che ci vuole la Coramina! Uno sente queste cose… poi deve rinchiudersi in camera due o tre ore per ricaricarsi ad altre fonti… meno male che ci sono! uno attacca la spina e si ricarica, sennò, coma! sennò diventi come vogliono loro, un pollo; un pollo all’ingrasso, diceva Gaber. Vi ricordate? Oggi è anche peggio.
Però il tempo in realtà continua a farsi estremo. Che noi non lo diciamo, o che non ce ne sia una rappresentazione culturale adeguata, non vuol dire affatto che le cose si siano fermate, o che siamo fuori dalla Storia o che siamo non si sa dove, a Disneyland. No, il tempo continua acceleratamente a spingere nella direzione di un mutamento che preme dentro e fuori in maniera sempre più coercitiva. E questa pressione del tempo, questa pressione al mutamento, come dicevo, si manifesta nelle insostenibilità che crescono su entrambi i livelli, quello personale, psicologico, biografico, esistenziale, e quello storico, ecologico, politico, di giustizia, di equilibrio planetario. Dobbiamo tenere molto insieme questi due livelli, perché è qui, in questa connessione che entrambi questi livelli gridano il ‘darsi pace’, ed è nel capire questa connessione, secondo me, il novum che dovremmo elaborare, come vedremo meglio nel secondo punto.
Vediamo un altro breve testo che ci fa capire come questa insostenibilità, cioè l’ingiustizia crescente, il disordine sociale crescente e lo scompenso interiore, siano connessi, inevitabilmente connessi. E voglio prendere un testimone antico, antico relativamente: un poeta, Eliot. Nel 1939, in un periodo della storia che conoscete nella sua drammaticità, l’Inghilterra sta per scontrarsi, praticamente da sola, contro il Nazismo; l’altra metà dell’Europa è sotto Stalin e Eliot, sentite cosa scriveva. Tenete conto di quando lo scrive, guardate come riesce a vedere molto al di là del conflitto pure tragico che ci sarebbe stato immediatamente, e a vedere il nuovo fronte problematico, i nuovi problemi che si sarebbero aperti per la società occidentale dopo la guerra, e che noi oggi conosciamo fin troppo bene: “La costante, silenziosa influenza che si esercita in ogni società di massa imperniata sul profitto, e che conduce all’abbassamento del livello artistico e culturale, mi pare più insidiosa di ogni forma di censura.” Cercate di capire quando lo dice! “La macchina sempre più perfezionata dell’organizzazione pubblicitaria e della propaganda, ossia, la tecnica per influire sulla masse con ogni mezzo tranne che con l’appello alla loro intelligenza, agisce contro l’arte e la cultura. Ostili ad esse sono pure il sistema economico, il caos degli ideali e la confusione di pensiero che distinguono la nostra educazione tipicamente di massa.” Ora voi sapete che Eliot è un conservatore. Tutto si può dire di Eliot tranne che fosse, oggi si direbbe, un uomo di sinistra. Insomma era un anglicano monarchico, inglese, che amava Dante e la tradizione occidentale, ma guardate come vede che un determinato sistema politico e culturale finisce inevitabilmente per distruggere le basi culturali delle persone. Oggi noi siamo talmente in una fase di torpore o di collaborazionismo, che è rarissimo sentire degli intellettuali, cioè persone pensanti, si ritiene, che dicano con un minimo di serietà questo, ma che lo dicano a partire da sessant’anni di effetti distruttivi già avvenuti.
Ora, noi sappiamo, purtroppo, dai dati statistici, come la nostra umanità sia oggi psicologicamente sofferente; come oggi il disagio psicologico, lo smarrimento, la crisi d’identità, la perdita di significato, il calo vertiginoso del desiderio, dell’eros, della voglia di vivere, siano ‘il problema’, ma nessuno o pochissimi dicono che ‘questo è il problema’. È assolutamente inutile che progettiamo un’Europa di cadaveri, un’Europa di persone che non hanno più voglia di vivere, che non hanno più motivazione a vivere. Perché il problema dell’Europa non è la Costituzione, ma è che non abbiamo più voglia di vivere. Ci sono delle immediate urgenze che andrebbero prese in considerazione: i due livelli – lo ripeto – connessi, indisgiungibilmente connessi, quello dell’interiorità e quello dell’organizzazione politica della convivenza. Questo per quanto riguarda il primo punto: la natura ultimativa e la pressione che spinge gli umani a cercare qualcosa d’altro.
Ora, di fronte a questa emergenza, a me pare che anche le correnti più sensibili rimangano spesso su livelli operativi troppo separati. Mi spiego! per esempio mi pare che si lotti per la pace e per la giustizia, intese in senso politico, cioè si faccia un’azione politica di un tipo molto analogo a quello che abbiamo vissuto ampiamente nel XX secolo, e non sempre con esiti entusiasmanti, bypassando quasi completamente il confronto con la propria natura bellica. È possibile ancora organizzare un movimento della pace, nel XXI secolo, che continui a pensare che i nemici della pace siano sempre gli altri? i cattivi? Che non ci si confronti seriamente col fatto che siamo tutti molto cattivi? pronti a farci la guerra per molto poco, magari guerre condominiali? Ad ammazzarci fra fratelli di sangue per pochissimo, a litigare con mamma per tutta la vita, fino alla bara e dopo, perché nei sogni continuiamo a strozzarla… o col papà. Cioè, a non prendere sul serio finalmente il fatto che darsi pace è qualcosa di molto impegnativo sul piano personale, che la devi smettere di pensare che cattivo è solo Bush o Berlusconi o Prodi. Che se tu non capisci che Bush e Berlusconi e D’Alema ce l’hai anche dentro di te, sei ancora nel XX secolo, cioè in un luogo pericoloso, in cui alla fine, pensi che qualcun altro è Satana. Bush dice che Satana sono i terroristi, Bin Laden; Bin Laden dice che Satana siamo noi. Ora uno vorrebbe dire: “Ma perché non vi comprate due specchi e cominciate a guardarvi meglio?” Per carità, poi ci sono problematiche varie… ma, voglio dire, è una questione di metodo. Uscire dal XX secolo, secondo me, non può significare che parlare di questo. Cioè, vuoi la pace, ma dove? In Iraq. Ma sul pianerottolo ce l’hai la pace tu? A casa tua ce l’hai la pace? Con i confratelli… ce l’abbiamo questa pace? Nella scuola, nei collegi dei professori… c’è la pace? Perché altrimenti stiamo di nuovo parlando invano, e non siamo all’altezza della sfida che abbiamo davanti. Continuiamo anche noi a fare il telegiornale e a dare al telegiornale materia per chiacchierare… e intorbidire… sì, e intorpidire anche. Perché in fondo questo è un pensiero comodo: è comodo pensare che ci sia sempre qualcuno cattivo, e che se fosse buono come noi il mondo andrebbe come il regno dei cieli. Purtroppo non è così! non è così!
Quindi, a me pare che ancora le culture antagoniste, diciamo politiche, bypassino completamente il confronto con la natura bellica e ingiusta, interiore del soggetto umano. Come se fosse un problema che non riguarda la pace! E quindi inevitabilmente continuano un gioco proiettivo che la psicologia ha in qualche modo approfondito da molto tempo.
Sul piano invece della cura privata psicologica oggi molti di noi cercano un sollievo alla propria sofferenza; un sollievo psicologico, spirituale. C’è un’enorme fioritura di scuole psicoterapeutiche, di meditazione buddista… perché le persone stanno molto male. Anche i movimenti ecclesiali sono una risposta, che ognuno poi valuterà, ma sono una risposta alla solitudine, sono una risposta al bisogno di comunità… anche i Testimoni di Geova sono questo. C’è bisogno di comunità, c’è bisogno di sentirsi non anonimi, c’è bisogno di sentirsi riconosciuti, curati. Però a me pare – e qui naturalmente andiamo per sintesi – mi pare che queste risposte di tipo chiamiamolo privato, non tengano conto che la nostra anima non è affatto una cosa privata. Non è che tu puoi curarti l’anima solamente nel gabinetto psicologico-analitico – a questo proposito Hillman ha detto cose fondamentali – perché la mia anima si ammala anche quando sto nel traffico; la mia anima si ammala anche perché gli orari di lavoro sono assurdi; la mia anima si ammala perché mio figlio di dodici anni vogliono che torni a casa alle due e mezza, dopo sette ore di scuola, questi pazzi! Quindi non posso sperare di curare l’anima senza curare la città. È psicoterapeutico cercare di migliorare politicamente l’assetto della mia vita. Fa bene all’anima se io riesco a interessarmi in forma creativa di quello che accade nel Darfur o di quello che accade in Africa. Non per un moralismo, ma per un dato reale della mia anima, dell’apertura cosmica dell’anima.
Quindi mi sembra che risulti sempre più necessario che questi due filoni, questi due tentativi di risposta alle problematiche del tempo, dialoghino molto di più e si integrino molto di più. Io credo che un elemento di novità della cultura che saprà rispondere alle pressioni di questo tempo, sarà proprio la capacità di coniugare queste due dimensioni in una maniera operativa. Quando saremo capaci di farlo, credo che avremo un nuovo rilancio dell’azione politica e al contempo anche, io credo, un nuovo rilancio dell’entusiasmo operativo dalla profondità del mio essere, che oggi non può non essere coinvolto fino in fondo in un progetto anche di mondo. Cioè, se un ‘mondo altro’ è possibile, a me interessa solo se un ‘altro me’ è possibile. Se deve essere solo il mondo a cambiare e io rimango quel cretino che sono, ma che me ne frega di cambiare il mondo! È un’illusione. Ma veramente uno crede ancora di poter cambiare il mondo rimanendo quello che è? Ecco, queste sono le domande che dovrebbero risuonare forti, che dovrebbero aprire un tempo grande di confronto gioioso, fraterno, dopo il novecento e i suoi odi, in cui veramente mettere insieme queste energie e farle frizionare, perché c’è bisogno di una scintilla in questo torpore. E questa scintilla, secondo me, è proprio il mettere in contatto questi due punti: il mio bisogno di una mia vita sostenibile e il bisogno di rendere questa trasformazione interiore, energia di trasformazione delle cose, delle varie cose. Quindi politica in senso grande. Cultura e politica, in senso grande, in senso forte.
Provo a sintetizzare brevemente questa parte del nostro discorso. È molto importante mantenere viva la consapevolezza che il nostro lavoro interiore non è nulla di individualistico o di privato. Lavorare alla propria liberazione è viceversa l’unica attività realmente opposta all’egoismo e ad ogni chiusura in quanto si adopera al dissolvimento delle sue radici ultime che sono profondamente immerse dentro di noi. L’unica autentica rivoluzione del mondo parte e si rinnova solo nel quotidiano capovolgimento del nostro cuore ego-centrato, bellico e terrorizzato. Aristotele diceva che l’anima dell’uomo è in un certo senso tutte le cose; ognuno di noi è come l’apertura misteriosa, il teatro vivente dell’intero creato. Ogni uomo è cioè un’immagine, una perfetta miniatura di Dio, e del ‘tutto’ che Dio costantemente crea. Per cui il lavoro di perfezionamento di questa immagine vivente del ‘tutto’ che ognuno di noi è, possiede immediati e incalcolabili effetti cosmici e collettivi. Mettiamo ordine nell’universo dando ordine al nostro cuore. Costruiamo la pace nel mondo dandoci pace. “Trova la pace nel cuore e diecimila esseri saranno illuminati” (Serafino di Sarov). Il lavoro spirituale è perciò il fondamento della nostra responsabilità storica e quindi anche politica, per il miglioramento della vita di tutti. Non dimentichiamocelo mai! Ecco perché un grande mistico indù del XX secolo diceva: “Come tu sei, così è il mondo”.
Ecco, questa nuova cultura che io intravedo germinale – ci sono dei segni, ci sono già, grazie a Dio, grandi opere dietro di noi che hanno costruito qualcosa – si tratta di renderla operativa; si tratta di renderla capace di nuove forme di aggregazione e di creazione culturale e storica. Questo è quello che io vedo e mi adopero per favorire.
Questa nuova cultura, dicevo, possiede dei caratteri inediti, per dirla con Balducci, integra in modo inedito la spiritualità con la politica. Non si tratta di ritornare al Medioevo, ma si tratta di scoprire una forma nuova di laicità, cioè di azione storica, ispirata però da un profondo processo interiore di trasformazione. Quindi questa cultura si radica nella nostra storia moderna, porta con sé l’eredità positiva della modernità e quindi anche della tradizione cristiana da cui la stessa modernità è nata. Qui ci sarebbero lunghissime riflessioni da fare, ma quello che mi sembra evidente è che oggi il filone delle culture moderne che si sono progressivamente allontanate prima dalla Chiesa e poi dal Cristianesimo, e il filone cristiano e cristiano-cattolico, che a sua volta si è contrapposto a queste culture della modernità vedendole come aggressione nei suoi confronti, questi due grandi filoni, che poi nascono dallo stesso albero, sono arrivati, divaricandosi, a dei punti morti. Cioè, la cultura laica, diventata in qualche modo laicista, non ha più nessuna energia vitale sufficiente ad affrontare questo tempo, ma anche la tradizione cattolica, rinserrata, non ha più energia creativa e, dal Concilio in poi, sta tentando in qualche modo di recuperare un rapporto con la modernità. Io credo che questa nuova cultura comunque scaturirà da una ri-coniugazione profondamente purificativa di questi due grandi filoni. Una ri-coniugazione profondamente purificativa di entrambi, che ri-coniugandosi in quello che è lo spirito da cui scaturiscono tutti e due, trovino un nuovo inizio.
Qui c’è anche una brevissima citazione di Benedetto XVI che, poco prima di essere eletto papa, ha parlato di questo, in termini molto simili. Vi leggo soltanto alcune righe del famoso discorso che ha tenuto a Subiaco pochissimo tempo prima dell’elezione al pontificato: «L’Illuminismo è di origine cristiana ed è nato, non a caso, proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana, laddove il Cristianesimo, contro la sua natura, era purtroppo diventato tradizione e religione di Stato». Quindi qui lui celebra l’Illuminismo, e giustamente. «Nonostante la filosofia, in quanto ricerca di razionalità, sia sempre stata appannaggio del Cristianesimo, la voce della ragione era stata troppo addomesticata. È stato ed è merito dell’Illuminismo aver riproposto questi valori originari del Cristianesimo e avere ridato alla ragione la sua propria voce». Parole importanti, che oggi stranamente andrebbero lette a chi vuole un recupero addirittura medievalistico del Cristianesimo, che è, grazie a Dio, estraneo anche al pontefice. Che lo dica, che lo ripeta, questo è molto importante. «Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, ha nuovamente evidenziato questa profonda corrispondenza fra Cristianesimo e Illuminismo», e quindi fra Cristianesimo e relativismo. Chiusa parentesi. Poi bisogna vedere cosa vuol dire relativismo, ma certamente un certo relativismo è frutto dell’Illuminismo, è frutto della grande intuizione di uno Spinoza e ancora prima… Si può pensare in modo diverso, si può avere anche fedi diverse, ma questo non vuol dire che la fede perda qualcosa, si può vivere in pace fra di noi! Questo è relativizzare. Ma qual è l’alternativa del relativismo? C’è un nome tecnico: assolutismo. Allora dobbiamo desiderare l’assolutismo? La Chiesa purtroppo ha spesso sposato l’assolutismo. Per esempio nel 1600, nel 1700, la Chiesa era con Luigi XIV e quindi con l’organizzazione assolutistica della monarchia, ed era contro le prime forme di monarchia parlamentare, per esempio in Inghilterra. Era a favore di Luigi XIV, ma poi che fine ha fatto la monarchia francese? Dopo cento anni gli hanno tagliato la testa ed è finita per sempre. Che fine ha fatto la monarchia inglese? C’è ancora. Capito, a essere assolutisti? Non conviene, la storia dovrebbe insegnarci qualcosa! Ma non ho finito. Sempre nel solito discorso c’era una frase interessante, che diceva… l’ultima, ecco: «Il Concilio ha nuovamente evidenziato questa profonda corrispondenza fra Cristianesimo e Illuminismo cercando di arrivare a una vera conciliazione tra Chiesa e modernità che è il grande patrimonio da tutelare da entrambe le parti. Con tutto ciò bisogna che tutte e due le parti riflettano su se stesse e siano pronte a correggersi». Tutte e due. Beh, questo è il Papa, quindi possiamo stare tranquilli…!
Bene, questo era il secondo punto. Quindi il novum lo individuerei nel coniugare con forza il bisogno straziante di liberazione, di trasformazione personale nelle nostre vite afflitte e il bisogno, altrettanto forte, di trasformare la città e il linguaggio della città. Qui poi entreremmo in grandi problemi: la televisione, la radio… insomma quello di cui ci imbottiscono. A quando una lotta di liberazione? Io sogno di partecipare a una grande stagione di lotta di liberazione dalla stupidità. Bonhoeffer, in un momento terribile della storia del mondo e propria, nel ’42, in cui anche lui aveva qualche problemino da fronteggiare, scrisse delle pagine fondamentali proprio sul pericolo della stupidità. Diceva che la stupidità è più pericolosa del male eclatante. Perché è sotterfugio e s’infiltra. Ti toglie gli strumenti per riconoscerla. Pagine bellissime!
Un ultimo punto, anche perché siamo allo scadere del tempo. Io faccio dei gruppi, un laboratorio per cercare di capire cosa possa significare mettere insieme un lavoro di autoconoscimento serio e profondo, con i mutamenti di una progettualità culturale e anche politica. Un piccolissimo accenno: quando noi iniziamo un lavoro di autoconoscimento serio, ci rendiamo sempre conto che molte forme del nostro comportamento sono mascheramenti, forzature, sono qualcosa che non ci è profondamente proprio. E scopriamo anche che ogni volta che noi ci forziamo ad essere accondiscendenti o invece ad essere ribelli, insomma a essere sempre noi quelli che devono risolvere i problemi, (Ercolino sempre in piedi), abbiamo dentro, più o meno nascoste, delle rabbie e dei risentimenti. Jekyll in fondo è una grande figura della maschera occidentale. Stevenson è stato un grande profeta, lui che ci dice: “Guardate che la maschera, questo ego occidentale, scientifico, morale, vittoriano, che va in giro per il mondo a colonizzarlo, a portare la civiltà, sta coltivando dentro di sé qualcos’altro, sta comprimendo, rimuovendo delle energie che non sa utilizzare e che prima o poi verranno fuori: il mister Hyde nascosto. E voi sapete che finisce molto male il dottor Jekyll. Perché se noi queste forze non le riconosciamo, finiscono spesso per distruggerci e Jekyll viene ucciso da Hyde. E questa è la profezia del XX secolo.
Dunque tutti noi abbiamo delle forzature dentro di noi e abbiamo anche tanta rabbia, tanto odio dietro queste forzature. Nel nostro lavoro di autoconoscimento ci rendiamo anche conto che meno prendiamo coscienza di questi dinamismi, specialmente delle nostre dinamiche distruttive, meno ne siamo consapevoli, e più le vediamo negli altri, le proiettiamo sugli altri. Ecco perché se voi andate in giro, che so, al bar, in autobus o semplicemente a casa propria, normalmente – fateci caso – uno dei discorsi più comuni fra noi umani è che qualcuno è pazzo. Fateci caso: quello è pazzo! quella è pazza! come, quel collega? È pazzo. È proprio pazzo, non ci si può trattare! Sicuramente qualcuno dice di voi che siete pazzi. Questo lo dice Leopardi: state sicuri che parlano male di voi. Su questo state sicuri, perché… come dire?… è la chiave universale della comunicazione umana. E tutti dicono degli altri che sono pazzi. Ma sapete perché? Perché è vero. È così! Cioè, siamo tutti scissi. Siamo profondamente scissi. Agiamo cose che non sappiamo. Gli altri le vedono e dicono di noi: quello è matto. E tutto questo lo comprendiamo lungo un lavoro infinito, perché conoscere le proprie profondità è un lavoro infinito, come infinito è ogni lavoro spirituale. Questo lavoro all’inizio è anche umiliante, nel senso che non ci piace vedere le nostre negatività, è amaro riconoscere che molto di quello che noi rappresentiamo nel mondo è un po’ falso, un po’ forzato, non è autentico, c’è una patina di forzatura; è doloroso tutto questo, molto doloroso, molto faticoso. Però questo è il vero inizio della conversione: l’inizio quotidiano.
Mi ricordo che quando facevo le trasmissioni alla radio, qualche volta mi trovavo a parlare con qualche cattolico, diciamo ‘di ferro’ (uno vorrebbe che fossero di carne… no, quelli erano di ferro!) e spesso capitava che in queste trasmissioni noi partivamo dalle esperienze negative, nel senso di dolorose; perché io sono convinto che è lì un luogo reale d’incontro. Cioè, noi c’incontriamo nella debolezza, nella ferita, più che nella forza o nell’essere baldi. Allora, ogni tanto arrivava qualcuno che diceva: “Ma sempre cose negative…!” Che poi in realtà si usciva, almeno lo spero, verso una luce, però non artificiale: una luce reale, una luce non di rimozione del negativo, ma di attraversamento consapevole. Questo invece diceva: “Ma insomma, sempre cose negative…!” e io gli dicevo: “Ma scusi, lei è cattolico, no?” e lui: “Sì”, e io: “Quindi ogni volta che lei va a Messa dice, – Confesso a Dio onnipotente… che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni – ora questa cosa è vera o no?” “Ma no, si dice così…” “Ma è vero o non è vero?” Insomma dentro di noi c’è un mare di merda o no? Perché se non c’è, allora siamo tutti a posto: è solo un problema degli altri. Sono gli altri che sono pazzi! Il problema è che ognuno pensa questo dell’altro, e questo crea il manicomio che è normalmente questo mondo, che non a caso per i cristiani è governato dal pazzo per antonomasia detto Satana, l’essere più folle dell’universo, quello che ha voluto costruire un mondo separandosi dalla fonte dell’Essere. Un mondo di pazzi, il nostro! Per fortuna possiamo uscirne… ma è un lavoraccio però! È un lavoraccio, però la speranza è quella. In fondo la speranza cristiana è tutta qua: il tempo è compiuto, il regno dei cieli è prossimo, convertitevi, cambiate testa, cambiate mente, metanoèite. Uno pensa, chissà che vuol dire ‘convertirsi’? vuol dire proprio cambiare la forma della mente e credere in questa bella notizia, che cioè possiamo uscire da questo inferno. Da questo manicomio possiamo uscirne! Questa è la bella notizia. Almeno così ho capito io.
Quindi è da fare questo lavoro doloroso e faticoso, di riconoscere che dentro di noi c’è veramente tanto odio, tanta aggressività, tanto rancore, tanta avidità. Voi immaginate le cose più negative… ebbene ci sono, ci sono tutte… forse non si sono sviluppate, sono in forma di seme, ma ci sono. Ora, questo lavoro modifica la nostra esperienza dell’identità, di chi siamo noi. Se ciò è vero, noi usciamo fuori da un’idea di noi stessi di tipo rigido, statico, da un’idea di identità come possesso di sé… “io so chi sono”… “lei non sa chi sono io!” Ma neanche tu lo sai chi sei! Nessuno sa chi è, se è serio! Se invece vogliamo giocare alle belle mascherine… se facciamo il carnevale… allora… «Io sono Marco Guzzi, poeta, saggista… piacere! E tu chi sei? Che fai?» No, il carnevale basta! Quaresima. Entriamo dentro la quaresima: è un tempo più vero… e poi c’è la Pasqua. Facciamo prima un po’ di quaresima. Riconosciamo cioè per un momento che dentro di noi ci sono effettivamente delle energie e delle energie furibonde non delle cosette, con cui dobbiamo fare dei conti. Ecco, questo ci porta a vivere la nostra identità non più come un possesso statico ma come un processo. Un processo e un processo particolare, perché io come procedo? Procedo, appunto, riconoscendo dentro di me questi aspetti, anche dolorosi, anche negativi, ed entrando in comunicazione con questi aspetti. Non li lascio fuori, non mi illudo che non facciano parte di me, non mi illudo di doverli fare fuori, ma capisco che posso dialogare con loro, riconoscerli come parti di me e, in questo modo, trasformarmi. Quindi questa nuova forma di identità la potremmo chiamare una ‘identità coniugativa, relazionale’. Uno sa che si trasforma veramente e cresce quanto più riconosce le proprie verità interiori ed entra con esse in dialogo, senza averne più troppa paura.
Allora questa nuova identità, questo modo di essere un ‘io’, quando passerà dal piano della trasformazione metanoica ad un piano di pensiero culturale, penserà: «Io sono tanto più credente, tanto più cristiano, per esempio, non se escludo, condanno, demonizzo il non credente che incontro per strada. Così non sarò più cristiano, ma sarò più cristiano se riconoscerò nel non credente una parte di me. Riconoscerò che dentro di me c’è un non credente». Se il credente non incontra il non credente dentro di sé, vuol dire che non vive la vera fede, ma vive un’identità mascherata e difensiva di tipo fondamentalistico. Un pericolo che corriamo tutti. Io per primo. Tutti i momenti. Però se uno lo sa, lo evita. Come si dice… “se lo conosci lo eviti!” Perciò una buona formazione ci aiuta a questo. Ora vedete, questa cosetta qui è una cosa grande, che va a toccare le fondazioni antropologiche della cultura umana. Perché la cultura umana, per come la conosciamo noi, si è sempre fondata sull’identità bellica, su soggetti che pensavano esattamente così: «Io sono greco perché tu sei barbaro», che, come sapete, vuol dire ba ba ba ba… cioè non si capisce quello che dici: non parli greco, quindi… ba ba ba ba… sei un barbaro, e quindi non sei un uomo. E questo l’hanno pensato i Greci, l’hanno pensato i Romani, i Cinesi, tutti! Non esiste una cultura che noi conosciamo che non si strutturi come identità per esclusione, o per polemica. Prendete qualunque sussidiario e guardatevi la storia del mondo degli ultimi cinquemila anni: è una serie di guerre, in cui gli imperi, a partire dai Sumeri – che sono considerati l’inizio della storia, intesa come storiografia, cioè come scrittura – da quel momento in poi le civiltà si sono fondate sulla guerra e basta. Quindi su identità rigide che trovano la loro forza nell’esclusione dall’altro e dell’altro. E la stessa civiltà e cultura cristiana per molti secoli purtroppo ha seguito, come sappiamo, questo medesimo costume, pur avendo nel suo genoma originario esattamente la figura trans-figurante di identità di cui stiamo parlando. Perché il cristiano è un essere in mutazione. Su questo voglio leggervi solo un passo dalla prima lettera di Giovanni (3,2) in cui questa cosa è chiara: «… noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato». Quindi la mia identità deve essere ancora rivelata; pur se io già la possiedo, non la conosco, «sappiamo però che quando Egli si sarà manifestato, noi saremo simili a Lui, perché lo vedremo così come Egli è». Quindi il processo storico di manifestazione di Dio coincide con la crescente presa di coscienza della mia stessa identità. Io mi conosco nella misura in cui Dio si rivela. E questo avviene in un processo che mi trasforma, perché io dovrò diventare simile a Lui per vederlo. Quindi chiaramente non dovrò rimanere come sono ora, che sono poco simile… molto poco simile a Lui.
La cultura cristiana purtroppo, per secoli e secoli, ha vissuto l’identità cristiana come un fortilizio, quindi in maniera precristiana in realtà. C’è ancora una forte dimensione sacrale nella coscienza cattolica in particolare. Quindi quello di cui stiamo parlando è veramente una svolta antropologica: l’idea di poter mettere a fondamento di una cultura e di una civiltà non più un ‘io’, un ego che trova la forza della sua identità escludendo gli altri o contrapponendosi, ma un ‘io’ che trova la sua forza nella trasformazione interna, nel riconoscimento dell’opposto come qualcosa di proprio, è una svolta antropologica. Ed è esattamente ciò che significa ‘darsi pace’, se è preso sul serio: un progetto millenario, un lavoro spaventoso, di generazioni che dovranno, io spero, sempre di più capire che non ci sono alternative. È questo il bello, che non ci sono più alternative reali! noi qui non ci siamo potuti soffermare nella descrizione dell’ultimatività di questo tempo, (chi vuole, nei miei libri troverà materia per riflettere) ma è così, sia sul piano della vita personale, delle biografie, sia dal punto di vista degli equilibri del mondo, a tutti i livelli. Dobbiamo riuscire ad innescare un processo rivoluzionario in senso culturale! e questa sarà la prima rivoluzione antropologica fatta coscientemente. Perché quella neolitica, quando avvenne, otto o diecimila anni fa, avvenne, ma quelli lì non erano consapevoli! Non pensavano, “mo’ stiamo facendo la rivoluzione del neolitico”, no! Noi invece sì! noi siamo consapevoli che stiamo vivendo una rivoluzione di questa portata, ed è nelle nostre mani riuscire a portarla avanti senza troppi danni. Danni purtroppo già ci sono, già li vediamo, già ci sono stati. Tutto il ventesimo secolo è una catastrofe leggibile così; determinata, cioè, da risoluzioni false di un problema vero. Qui ci sarebbe da fare una lunga riflessione sulla natura dei totalitarismi, perché sennò continuiamo a non capire cos’è il novecento. Cioè, perché ci sono stati? perché hanno avuto tanto successo? Che siano stati una catastrofe non c’è dubbio, ma perché sono nati, perché hanno avuto successo, a quali domande rispondevano? Se poi li andate ad analizzare, rispondevano esattamente a queste medesime domande che già si diffondevano in modo molto drammatico tra otto e novecento. Periodo millenaristico, specialmente in Russia, dove poi non a caso esplode la rivoluzione d’ottobre. Se uno conosce un po’ la letteratura, ma anche la filosofia che circolava in Russia, era quasi tutta apocalittica e millenaristica, di fortissima attesa di qualcosa che doveva cambiare radicalmente.
Quindi, vedete come il lavoro interiore vero, serio, diventi un’inevitabile fonte di energia di una cultura di questo genere, perché se io non lavoro quotidianamente in questo modo nel mio profondo, domani mattina rigioco il gioco delle proiezioni, magari di tipo spirituale. È a questo che dovremmo stare molto attenti, perché, come purtroppo il novecento ci ha insegnato, le controfigurazioni sono sempre possibili. Non è detto che nasca subito il frutto buono, purtroppo. E qui faccio un appello a una vigilanza critica che, ripeto, oggi mi sembra sia drammaticamente carente. Drammaticamente carente! Con una forte connivenza dei ceti intellettuali, che si dovrebbero curare, secondo me. Perché è chiaro che conducendo certe vite di disordine… insomma, per fare un lavoro serio, oggi è richiesta un’enorme concentrazione. È un paradosso, perché più è necessaria la concentrazione e meno è facile viverla; perché tutto sembra contrario. Però è proprio così. Ecco perché io credo molto nell’importanza dei gruppi, cioè di darsi un sostegno, che poi è l’idea della comunità cristiana, originariamente. Non si può ‘vivere nel mondo senza essere del mondo’ da soli, non reggi! Quindi c’è bisogno di una rete umana, anche pratica, anche economica alla fine. Molta gente, nei miei gruppi, viene e mi dice: “Sì, sono perfettamente d’accordo, però io faccio un certo tipo di lavoro per cui sono alienato. Che devo fare?” Drammatico! Non tutti i lavori sono redimibili e non in tutte le fasi della nostra vita. Quindi sono grandi problemi che io spero diventino un luogo di lavoro e di creazione.
Voglio finire con una nota di speranza, che penso e spero sia forte in tutto quello che dico, perché la vera speranza non è quella che nasconde i problemi, ma è quella che li denuncia meglio di tutti. Perché vuol dire che puoi guardarli tutti e non esserne schiacciato. La disperazione è quella di chi nasconde i problemi. La disperazione è la pubblicità, le famigliole che si cucinano i wurstel tutte contente: quelle sono disperate, mi mettono un’angoscia!
Vorrei finire con un breve passaggio di Saint-John Perse. Saint-John Perse è un grande poeta francese, Premio Nobel 1960, e in uno dei passaggi del discorso di ricezione del Premio Nobel, a Stoccolma, diceva: “I peggiori rivolgimenti della storia non sono che ritmi stagionali in un più vasto ciclo di concatenazioni e di rinnovamenti. Le furie che attraversano la scena a torce levate, non illuminano che un istante del lunghissimo tema in corso. Le civiltà giunte a maturità non muoiono a causa dei patemi di un autunno: non fanno che cambiare. Solo l’inerzia è pericolosa. Poeta è colui che spezza per noi l’abitudine, e dica a tutti chiaramente il gusto di vivere questo tempo forte. Perché l’ora è grande e nuova, nella quale conoscersi di nuovo.”
Ecco, questo è l’augurio: aprire un tempo di ricerca e di conoscenza, che ci ridia questo tipo di energia, senza la quale non si batte chiodo né si esce dall’ombra angosciosa della morte in cui sembra rinchiudersi il nostro tempo!