Che cosa è successo? Dove siamo precipitati? Sono domande poste da credenti e non credenti, smarriti e a volte angosciati. Siamo stati colpiti dalla pandemia, ma c’è stata anche un’epidemia della paura. Le stesse chiese si sono trovate inizialmente esitanti e poi si sono espresse con una voce tenue, consolatoria, sì, ma priva di una capacità di “guidare”, di discernere i segni dei tempi; senza una parola autorevole e performativa nei confronti dei fedeli e della gente. “Non mi è sembrato di aver udito nella chiesa italiana il pronunciamento di una parola autorevole, partecipe, consolatrice, ma anche profonda, illuminante, orientatrice”, ha scritto don Giuliano Zanchi in I giorni del nemico. Ancora una volta è stato papa Francesco, soprattutto con i suoi gesti, scaturiti dalla sua umanità profonda e dalla sua capacità profetica, a essere un riferimento affidabile, un intercessore presso il Signore, un pastore in mezzo al gregge.
Certamente questa emergenza merita il nome di apocalisse, nel suo autentico significato biblico: si è alzato un velo ed è avvenuta una rivelazione sulla chiesa stessa, sulla sua fede, sulla sua liturgia. E quando giungerà la fine della pandemia, occorrerà interrogarsi e fare una grande operazione di discernimento evangelico, senza il quale è inutile invitare alla conversione. Non basta infatti dire: “Convertitevi!” ma, come facevano i profeti e Gesù, occorre indicare e smascherare gli idoli che impediscono la vera adorazione del Dio vivente e quindi la sua testimonianza all’umanità.
Confesso di aver sofferto molto in questo tempo. Innanzitutto per quelli, tra i quali alcuni amici, che sono stati colpiti dal virus; per quelli che sono morti soli, abbandonati e senza il conforto dei sacramenti religiosi. Ma ho sofferto anche per la vita della chiesa che, insieme ad autentici atti di carità e profondo valore spirituale, per l’iniziativa di alcune persone ha assunto forme non adeguate e a volte neppure degne della fede cristiana che professiamo. Dobbiamo confessarlo: è emerso che la riforma liturgica del Vaticano II ha cambiato i riti ma non ha mutato in profondità le mentalità e dunque non ha fatto maturare i cristiani verso un “culto spirituale” (loghiké latreìa: Rm 12,1), un culto secondo la Parola, nel quale si offrono a Dio i propri corpi in sacrificio vivente.
Le numerose celebrazioni tecnologiche e virtuali, celebrazioni eucaristiche in chiese vuote – messe senza popolo e popolo senza messa! –, non sono state vie offerte con intelligenza. Non si è detto con chiarezza che queste non potevano essere autentiche liturgie dei sacramenti ma solo strumenti di devozione e di aiuto alla preghiera personale. Mi rincresce dirlo: inutile istituire la “domenica della Parola”, se poi non si invitano i cristiani a cibarsi della Parola, anch’essa vero corpo di Cristo, quando diventa necessario il digiuno eucaristico. Inutile parlare di assemblea celebrante senza tenere conto della sua presenza nel celebrare, quando il Catechismo della chiesa cattolica giunge a dire con audacia: “Tutta l’assemblea è liturgia” (n. 1144). Perché i pastori tutti non hanno coralmente e unanimemente invitato i fedeli a celebrare in famiglia una liturgia domestica della Parola, soprattutto nel Triduo pasquale? E perché molte comunità piccole, anche religiose, hanno preferito seguire i riti in streaming piuttosto che celebrare la liturgia della Parola, essendo “un regno e dei sacerdoti per Dio” (Ap 1,6)?
La chiesa di Pio XII – ne sono testimone – non permetteva la celebrazione della messa senza che almeno un laico vi assistesse, a nome del popolo di Dio. Spero vi sarà la possibilità di esprimere queste perplessità e di sollevare queste domande nello spazio ecclesiale, per trovare strade di obbedienza alla Parola e alla grande tradizione. Lo faremo, ogni cosa a suo tempo… Qui comincio con l’affrontare uno degli aspetti più semplici, più visibili ma anche contestati in questa emergenza: che preghiera fare? E soprattutto: Dio interviene nella nostra vita? Tentiamo una risposta in obbedienza alla fede cristiana.
In questo periodo moltissimi cristiani sono tornati a pregare e la chiesa appare più che mai un popolo che implora Dio, chiedendogli la liberazione dal male e la fine della pandemia. Il papa, i vescovi e i pastori si fanno intercessori e invitano i credenti a pregare nelle diverse forme possibili, in una situazione in cui la liturgia eucaristica comunitaria è diventata impraticabile. Sono riapparse forme di preghiera dimenticate, desuete, e soprattutto il culto mariano si mostra ancora capace di attirare molti fedeli. Di fronte a questo inaspettato impegno nella preghiera – nelle sue forme più devozionali, va riconosciuto –, vi è chi grida allo scandalo, chi s’indigna giudicando tale preghiera uno stalking, un’ossessiva invocazione di un Dio ridotto a idolo, una smentita dell’immagine di Dio rivelataci definitivamente da Gesù.
Secondo questi pareri, ciò che avviene nella liturgia della chiesa di fronte al male sofferto sarebbe un abuso, un ritorno alla ripetizione pagana di parole che in realtà affaticano Dio. Non mancano quanti pongono nuovamente la sterile e stolta domanda: “Dov’è Dio?”, nella loro incapacità di chiedere a se stessi innanzitutto: “Dov’è l’umanità?”. Molti tentano risposte intellettuali, astratte, e finiscono per giudicare l’invocazione della povera gente come fede infantile, più superstiziosa che fede autentica, pensata e adulta.
Diventa dunque urgente metterci ancora una volta in ascolto della Parola contenuta nelle sante Scritture e accettare di esserne illuminati. È infatti la parola di Dio che giudica ogni nostra preghiera, ogni nostra parola di risposta al Dio che per primo ci ha parlato e che ci chiede innanzitutto di ascoltare la sua voce. Dimentichiamo facilmente che la preghiera cristiana è prima di tutto ascolto. Preferiamo dire a Dio: “Ascolta, Signore, perché il tuo servo ti parla”, piuttosto che: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta” (1Sam 3,9).
Ma cosa ci dice questa parola? Innanzitutto che il nostro Dio si è rivelato perché ha ascoltato il grido che saliva a lui dai figli di Israele oppressi in Egitto. Ha ascoltato il grido degli umani ed è entrato nella nostra storia; non è restato lontano, nel cielo, ma si è fatto presente in mezzo a noi (cf. Es 3,7-8). Ecco dunque che il Signore agisce, ma non senza di noi e con un’azione onnipotente che s’impone, modificando il funzionamento normale delle cose. No, agisce in noi affinché, ispirati dalla forza interiore che egli ci dona, possiamo operare nella storia conformemente alla sua volontà. Per questo il Signore nostro è da sempre il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Mosè, dei profeti: perché è in essi e attraverso di essi che egli è stato ed è l’Emmanuele, il Dio-con-noi, colui che agisce nella storia. Il nostro Dio non si presenta come una forza esteriore che noi dobbiamo invocare per compiere ciò che non possiamo fare, né ha la possibilità di un’azione distante da quella degli umani.
Che ne è allora della preghiera di domanda? Sappiamo bene che non possiamo domandare miracoli né segni, ma possiamo, anzi dobbiamo chiedere ciò che ci consente di vivere la nostra fiducia in Dio e il nostro abbandono a lui. Senza questa fiducia, che conta molto più delle nostre formule, le nostre preghiere sarebbero superstizione. In verità – come avverte Paolo – noi non sappiamo cosa domandare al Signore, non sappiamo come pregare, ma lo Spirito santo, che è all’origine della nostra preghiera, con gemiti inesprimibili fa giungere il nostro grido a Dio, il quale guarda più al nostro cuore che alle nostre parole (cf. Rm 8,26). Per questo Gesù ci ha invitato a pregare, a domandare (cf. Lc 11,9-10), assicurandoci di essere esauditi attraverso il dono dello Spirito santo che agisce in noi con efficacia (cf. Lc 11,13). L’angoscia che noi viviamo in certe situazioni ci fa innalzare preghiere che, nella misura in cui non sono pretese, non sono illegittime ma sono parole e gesti di fiducia nel Signore.
L’onnipotenza del nostro Dio è onnipotenza nell’amore, perché Dio non può mai intervenire se non attraverso l’amore, un amore gratuito per ognuno e per tutti, buoni e malvagi, credenti e non credenti. I “fedeli credenti” nel buon messaggio, nell’Evangelo, possono dunque pregare chiedendo a Dio con semplicità di dare loro il pane quotidiano e di liberarli dal male (cf. Mt 6,11.13; Lc 11,3). Dio, attraverso il suo Spirito santo, ispirerà vie per procurare il pane quotidiano, per noi e per gli altri che sono nel bisogno, e ci spingerà a combattere contro il male per vincerlo.
Così e solo così Dio agisce nelle nostre vite, perché è lui la sorgente della nostra resistenza al male. Sì, il nostro Dio non è un Dio cieco al quale dovremmo aprire gli occhi; non è un Dio sordo al quale dovremmo ridare l’udito. È il Dio che, invocato, apre i nostri occhi e nostri orecchi e ci rende capaci di amare come lui “è amore” (1Gv 4,8.16), nella cura e nel servizio dell’umanità, nella lotta contro il male che ci assale.