Cristo si è fermato ad Eboli è parte della coscienza morale del secondo Novecento italiano ed europeo. Carlo Levi e Ignazio Silone ci hanno mostrato un’anima popolare dell’Italia meridiana, contadina e povera molto più complessa e ricca di come l’avevano descritta i primi storici moderni e illuministi, per i quali quei contadini italiani erano semplicemente “pagani”, molto simili se non identici agli abitanti pre-cristiani della Magna Grecia; come se il cristianesimo non fosse mai passato in quelle terre rurali del Sud, che, per la poca o inesistente cultura cristiana, erano state già definite dai gesuiti del ‘600 le “Indie d’Italia”. Cristo non si era fermato solo a Eboli: non era mai uscito dalle mura aureliane di Roma, dai seminari e dai trattati di teologia.
Cristo si è fermato ad Eboli è ambientato tra Grassano e Aliano (chiamato Gagliano nel libro), due comuni nella provincia di Matera. Il tema religioso nei suoi rapporti con la magia è un elemento essenziale del romanzo: «Nell’altro mondo dei contadini, dove non si entra senza una chiave di magia» (Cristo si è fermato ad Eboli, Einaudi, 1947, p. 20). Quest’estate ho trascorso alcuni giorni in quei due paesi, per respirare il loro spirito, e lì, tra letture e un pellegrinaggio a piedi alla Madonna di Viggiano, ho deciso di scrivere questi pochi articoli sul Cristo di Carlo Levi. La presenza di Levi è ancora vivissima in quelle terre, a svelarci quella capacità sublime che ha la letteratura di cambiare la storia e la geografia dei luoghi mentre ce ne svela l’anima profonda. Il mondo cambia ogni giorno mentre proviamo a raccontarlo.
Il Cristo di Levi è molte cose. A prima vista è un romanzo autobiografico, una sorta di diario antropologico e sociale scritto tra il 1943 e il 1944 a Firenze, che racconta il periodo di confino lucano (1935-1936) dell’anti-fascista Carlo Levi, pittore, medico, attivista politico e scrittore. Il romanzo è anche la denuncia della condizione disumana degli abitanti e dei bambini denutriti e malarici di Matera. Ma le sue pagine più belle sono ancora altre. Sono le descrizioni dei sentimenti della povera gente, delle loro molte paure, delle meschinità morali di tutti i fascismi e di tutte le censure, del senso religioso e magico di un mondo popolare e contadino di cui sopravvive un richiamo vero e vivo. Ma il Cristo è soprattutto un libro scritto con una prosa meravigliosa. Levi era un pittore, anche quando scrive dipinge; usa la penna per disegnare paesaggi e piccoli dettagli, volti di uomini, di donne, di bambini, di poveri.
“Cristo” non è solo la prima parola di uno dei titoli più geniali della storia della letteratura; è anche uno dei protagonisti centrali del romanzo, protagonista nella sua assenza: «Noi non siamo cristiani – essi dicono, – Cristo si è fermato a Eboli -. Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio, uomo… Noi non siamo cristiani, non siamo considerati come uomini, ma bestie, bestie da soma, e ancora meno che le bestie». E poi specifica: «Ma la frase ha un senso molto più profondo, che, come sempre, nei modi simbolici, è quello letterale. Cristo si è davvero fermato ad Eboli, dove la strada e il treno lasciano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato fin qui» (pp. 9-10).
Per Levi, Cristo e la sua fede diversa non si trovano in quelle terre, non sono scesi fin lì; al loro posto c’era invece la magia, la stregoneria, i monachicchi (gli spiriti dispettosi dei bambini morti senza battesimo), i morti: «Per il vecchio, le ossa, i morti, gli animali e diavoli erano cose familiari, legate, come lo sono del resto, qui, per tutti, alla semplice vita di ogni giorno – Il paese è fatto delle ossa dei morti – mi diceva nel suo gergo scuro, gorgogliante come un’acqua sotterranea che esca improvvisamente tra le pietre» (p. 67). C’erano anche alcuni santi e la Madonna di Viggiano che però di cristiano avevano, per Levi, davvero molto poco o nulla: «La madonna di Viggiano era, qui, la feroce, spietata, oscura dea arcaica della terra» (p. 113).
La visione che Levi ci dona dei contadini della Basilicata è simile, ma anche diversa, a quella di Ernesto de Martino, emersa dai suoi studi etno-antropologici sulla Lucania e il Sud, condotti più o meno negli stessi anni di Levi. Per de Martino tra religione cattolica popolare e magia ci realizzò una mutua contaminazione, sebbene l’elemento dominante restasse la magia, che era molto più radicata, popolare, diffusa della fede cristiana che era arrivata nel Sud da fuori, dall’alto e parlante una lingua incomprensibile. De Martino era poi convinto che un certo elemento magico fosse intrinseco allo stesso cattolicesimo: «Dall’esorcismo extra-canonico di stregoni e fattucchiere si passa agli esorcismi del messale (benedizione dell’acqua, del sale, della preghiera contro Satana e degli altri spiriti maligni al termine della messa etc.), del pontificale, del rituale romano …, delle medaglie di San Benedetto e soprattutto degli esorcismi» (Sud e Magia, 1959, p. 120). Per De Martino, laico e comunista, diversamente da Levi qualcosa di Cristo e del cristianesimo era arrivato oltre Eboli, formando una parte, forse non la più importante, della religione meticcia di quelle genti. Ancora più lontano da Levi si era spinto in quegli stessi anni don Giuseppe de Luca, intellettuale tra i massimi del ‘900 e grande storico della pietà popolare, che ci ha raccontato una fede del popolo cattolico certamente meticcia ma anche cristiana, sebbene fosse un cristianesimo diverso da quello dei catechismi (Introduzione alla storia della pietà, 1951). Anche per De Luca la pietà del popolo meridiano e contadino era un meticciato di cristianesimo e altre cose. Cristianesimo mescolato, impuro, contaminato, ma sempre cristianesimo, non meno vero di quello dei teologi della Controriforma.
Nel mondo descritto da Levi, non così diverso da quello dei miei nonni, c’erano gli spiriti, i santi, moltissimi morti, tutto era avvolto da una certa atmosfera spirituale più negativa e paurosa che positiva e rassicurante; una presenza sovrannaturale costante fatta di elementi arcaici, di molta magia e di qualche innesto cristiano assorbito presto dall’humus animista antico. Non possiamo negarlo. L’Europa cristiana, la Christianitas medioevale e pre-moderna è stata, infatti, frutto soprattutto dell’immaginazione dei teologi e degli ecclesiastici che confondevano la fede delle élite urbane e delle casate aristocratiche con quella di tutto il popolo cristiano. In realtà, nelle campagne, nelle montagne, i poveri e gli analfabeti hanno vissuto in un’attesa del messia molto simile a quella del popolo biblico, che ancora continua. Eppure, nonostante tutto ciò, Cristo superò Eboli, raggiunse quei popoli contadini e magici, che lo incontrarono davvero dentro le preghiere latine riscritte in dialetto, nelle statue dei santi bagnate dalle lacrime, nelle prediche dei missionari itineranti, persino in quella strampalata di Don Trajella per la vigilia di Natale. Il cristianesimo non fu la massa della fede della nostra gente, ma un granello piccolissimo del suo lievito la lievitò, e continua a lievitarla.
La religione cristiana si era fermata e Eboli, o molto prima, ma Cristo no: lui era sceso fino alla Basilicata e alla Sicilia, si era mescolato e coperto con molte altre cose per poter penetrare più dolcemente dentro la vita della gente, e lì è restato. Quel popolo contadino magico incontrò dunque davvero Cristo, un Cristo popolare, dialettale, bambino, travestito con abiti tradizionali e folkloristici; ma Cristo era lì, a Gagliano, dentro gli amori e soprattutto i dolori dei poveri, degli uomini e soprattutto delle donne, per le quali gli abbracci e i baci alle statue dei santi e della madonna erano i pochi momenti di tenerezza e di bellezza in un mondo che per loro era quasi sempre di servitù. Donne analfabete, un po’ cristiane e un po’ streghe, tutte bellissime, alcune descritte magistralmente anche nel Cristo di Levi; donne del popolo, con la stessa fede dei pastori del presepe, della donna siro-fenicia e dell’emorroissa, quella della Maddalena, di Marta, di Maria. Fedi teologicamente imperfette, popolari, fatte di lacrime, di carne e di corpi, ma vere.
Carlo Levi non vide questa pietas cristiana nella Lucania. Non la vide perché non la cercò. Non gli interessava. Per questa dobbiamo leggere de Luca. Ma Levi trovò altro, e non meno interessante. La perla del Cristo di Levi è lo sguardo del suo autore. Uno sguardo buono e mai giudicante sulla vita dei contadini che aveva incontrato. Pur essendo figlio di un altro mondo (quello della scienza) e parte di un altro universo religioso (era laico e di famiglia ebrea torinese benestante), Levi non esprime giudizi di valore sulla condizione morale dei suoi protagonisti: registra le loro passioni, i loro gesti, le loro fedi, i loro grandi dolori disperati, ma non li giudica mai. Non giudica la sua domestica, Giulia, che ha avuto 17 bambini con altrettanti uomini, né gli esorcismi delle altre “streghe”, e neanche Don Trajella, parroco confinato a Gagliano, ubriacone e avaro. Anzi, qua e là, arriva addirittura ad esprimere parole positive su quei metodi magici di “gestione” delle malattie e del malessere della vita, rivelando persino un certo scetticismo nei confronti della scienza positivista del suo tempo che trattava tutta la conoscenza popolare come superstizione da eliminare: «La ragione e la scienza possono assumere lo stesso carattere magico della volgare magia… Perciò io rispettavo gli abracadabra, ne onoravo l’antichità e l’oscura, misteriosa semplicità, preferivo essere loro alleato che loro nemico». Anche perché, aggiungeva Levi, «la maggior parte della ricette basterebbe a guarire i malati, se, senza essere spedite, fossero appese al collo con una cordicella, come un abracadabra» (p. 215). Rispetto ed onore quindi; non si entra nel mondo contadino “senza una chiave di magia”, certamente; ma non si entra nel loro mistero senza anche “rispettarli ed onorarli” – ieri e oggi.
Levi ha scritto pagine sui contadini che ancora ci commuovono, perché li ha onorati e rispettati, perché ha lasciato la sua condizione agiata borghese ed è sceso sotto il tavolo del ricco epulone, in compagnia di Lazzaro. E da lì, dal basso, ha visto panorami diversi. In questo esercizio etico e spirituale la sua condizione di confinato lo aiutò, quella sua povertà politica e civile gli donò un’autentica fraternità con la povertà naturale dei contadini. E da questo incontro tra persone diverse rese uguali dalla sventura, nacque il capolavoro.