In una delle sue gustose storielle, Anthony de Mello parla dell’inattesa visita di Cristo in una parrocchia, la cui chiesa si gremì fino all’inverosimile per la straordinaria occasione. Erano tutti disposti, nel desiderio di trattenerlo con sé, a ospitare il Signore la notte in casa propria; ma egli, come era naturale, preferì rimanere in chiesa. Dove la gente pensava di ritrovarlo il giorno dopo. Accorsa in orario antelucano e varcate le porte, si trovò di fronte a un evidente atto di vandalismo: dovunque era stata scarabocchiata la parola “attenzione”: pareti, colonne, pulpito, altare e perfino la Bibbia che stava sul leggio. Superato lo shock iniziale, quasi si trattasse di un atto sacrilego, tutti si convinsero che un simile gesto era dovuto a Gesù stesso e così la misteriosa parola “attenzione” penetrò nel cuore dei fedeli e a poco a poco trasformò la loro pratica religiosa e la loro stessa vita. A tal punto che la parola “attenzione” venne collocata come insegna luminosa sopra l’ingresso della chiesa.
E se questo fosse il compito della religione: restituire l’uomo a se stesso, renderlo pienamente umano? A questo punto ci si consentirà una digressione dotta, ma illuminante. Afferma Socrate conversando con Cratilo nell’omonimo dialogo di Platone: «Questo nome ànthropos/uomo significa che, mentre gli altri animali le cose che vedono non le considerano, non se ne rendono conto e non le considerano (in greco: anathrèi – ndr), l’ànthropos invece, nel tempo stesso che vede – e questo vuol dire l’òpope – anche anathrèi, si rende conto di ciò che ha visto». Per questo appunto, unico fra gli animali, l’uomo fu detto ànthropos, in quanto è consapevole (in greco: anathròn) di ciò che vede (in greco: òpope). Al di là delle sottigliezze etimologiche, sta il fatto che l’uomo ci viene presentato come l’essere che di sua natura è cosciente, consapevole.
La consapevolezza è da considerarsi come una delle tante sfaccettature della beatitudine che pervade il cuore dell’uomo raggiunto dalla grazia di Cristo. Esiste infatti, oltre alle beatitudini che ben conosciamo e che con facilità affiorano alla nostra mente, la beatitudine della consapevolezza. La rintracciamo agevolmente in un testo del Vangelo di Luca, conservato dalla cosiddetta tradizione occidentale (codice di Beza) che offre aggiunte e varianti antichissime anche se probabilmente non coeve alla stesura originaria dell’opera lucana. Vi si legge: «Vedendo Gesù qualcuno lavorare in giorno di sabato, gli disse: “Amico, beato te se sai quello che fai; ma se non lo sai, sei un maledetto e un trasgressore della legge”» (cfr. in nota a Lc 6,5).
Forse il commento più pertinente a questo passo ci viene da un attento indagatore dell’animo umano, il celebre psicologo e pensatore svizzero Carl Gustav Jung. «E ovvio che soggettivamente si abbia una grande differenza se si sa quel che si sta vivendo, se si comprende quello che si fa o se ci si dichiara responsabili di quello che ci si propone di fare o di ciò che si è fatto, oppure, al contrario, non avvenga nulla di tutto ciò. Quale sia la differenza tra la l’assenza di questa, l’ha maniera molto completa Gesù», E, dopo aver citato il testo già noto, conclude: «L’incoscienza non vale mai come scusa dinanzi al giudizio della natura e del destino; anzi, al contrario, viene colpita da gravi pene e perciò tutta la natura inconscia aspira ardentemente alla luce della coscienza, che tuttavia le ripugna tanto».
La consapevolezza consiste nel renderci perfettamente trasparenti alla verità profonda di ogni realtà: di se stessi, degli altri, delle cose, degli eventi e di Dio. Chi coglie le verità – attraverso l’introspezione, non meno che ponendosi dinanzi allo specchio della parola di Dio ed entrando in dialogo con la propria guida spirituale – chi la coglie, dicevamo, non può non operare il bene, fosse pure la sua azione in contrasto con la legge. E per questo è detto beato. All’opposto, dovrà essere considerato maledetto e trasgressore non chi contraddice materialmente alla legge, ma chi non la osserva per mancanza di consapevolezza. Forse questo secondo aspetto parrà più problematico, che cioè sia privo della beatitudine chi disattende alla legge, non rendendosi conto di quello che fa (o non fa), ma basta pensare all’importanza che in tutta la Bibbia riveste l’intenzionalità, la presenza a se stesso, la vigilanza. Sono note le messe in guardia rivolte, nell’Antico Testamento, al popolo giudaico, in ordine all’Alleanza (Dt 4,23), al Decalogo (Dt 8,1), alla preghiera (Dt 6,4). In questo caso si raccomandava di recitare lo Shemà, l’«Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è l’unico» (Dt 6,4), con kawwanah, ossia con grande concentrazione, prolungando la parola “unico”, finché non si fosse riconosciuto «Dio re, in alto e in basso e ai quattro angoli del cielo», come si legge nel Talmùd babilonese.
Nel Nuovo Testamento è vigorosamente sottolineata l’esigenza di vigilare, come vedremo meglio a suo tempo.
Si diceva che la consapevolezza ci apre alla verità e ora aggiungiamo: ci apre al mistero. Esso può essere colto solo se ci poniamo in stato di trasparenza. Il mistero, infatti, e cioè il divino che permea ogni realtà, non si offre alla nostra intelligenza alla quale risulta per lo più accecante, ma alla nostra capacità di stupore. Si narra, nel libro deiGiudici, che Manoach, il futuro padre di Sansone, all’angelo che per la seconda volta lo rassicurava in ordine alla nascita di un figlio tanto desiderato quanto inatteso, rivolse questa domanda: «“Come ti chiami, perché quando si saranno avverate le tue parole, noi ti rendiamo onore?”. L’angelo del Signore gli rispose: “Perché mi chiedi il nome? Esso è meraviglia”» (Gdc 13,18).
E se ogni giorno ci riservasse la gioia dello stupore e della meraviglia? A questo noi ci dobbiamo rieducare. Entriamo quindi come di consueto nella nostra oasi spirituale.
Siamo in un nuovo millennio. Ogni trapasso epocale comporta un sovrappiù di consapevolezza, a cui sono stati invitati i cristiani di tutte le confessioni. Come mi si manifesta oggi – e «finché dura questo oggi» (Eb 3,1 3) – la presenza e l’azione di «Colui che è più intimo del mio intimo e superiore a ciò che in me vi è di più eccelso»? (sant’Agostino).