Chiesa e covid /2. Castellucci: prioritario non perdere il buono nato con l’emergenza

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L’arcivescovo, vicepresidente della Conferenza episcopale italiana: la pandemia è stata una tragica sorpresa ma il lockdown è stato creativo per la vita ecclesiale

Le basi evangeliche dell’ascolto, dell’incontro, della semplicità come motore per uscire migliorati dalla crisi. Il rischio che, dopo lo spirito di squadra iniziale, la voglia di riconquistare la normalità si traduca nella chiusura in se stessi, in un eccessivo ripiegamento nei propri particolarismi. Il dovere di ripartire dagli ultimi, da chi è stato lasciato ai margini, lontano dai riflettori. Monsignor Erio Castellucci guarda con grande attenzione ai dati emersi dalla ricerca dell’associazione “Essere qui” sulla Chiesa italiana nell’anno della pandemia.

L’emergenza Covid, osserva, è stata una tragica sorpresa per tutti ma la reazione della comunità ecclesiale per quanto complicata e difficile, c’è stata, ed è stata pronta. Sul fronte dell’impegno nel sociale si è tradotta, ad esempio, nei 200 milioni di euro stanziati nella primavera del 2020 per sostenere in modo capillare la ripresa.

Sul terreno dell’annuncio, si tratta di non sprecare ciò che il periodo più duro della crisi ci ha insegnato. Innanzitutto la bellezza dell’incontro – spiega il vice presidente della Cei, arcivescovo di Modena-Nonantola e vescovo di Carpi -; forse mai, come in questo tempo di distanziamento fisico, i cristiani avvertono l’importanza del vedersi di persona, stare insieme “a tutto tondo” e non solo attraverso uno schermo. Un tempo si usava chiedere “quante anime conta la parrocchia”. Ora ci siamo resi conto, invece, di quanto contano i corpi e di come abbia ragione Paolo a definire la Chiesa “corpo” di Cristo. Abbiamo sete di relazioni dirette. La pandemia ci ha poi insegnato molto altro: che nella comunità alcune cose sono essenziali e altre secondarie e quindi, ad esempio, si potrebbero snellire le riunioni organizzative per fare più spazio alla formazione; che esistono tante persone fragili, spesso rintanate nelle case, verso le quali occorrono un’attenzione e una ministerialità più intense; che Marta deve dipendere da Maria, cioè il servizio, per non essere affannato, deve innestarsi nell’ascolto del Signore e dei fratelli.


Forse «non si è colto che la Chiesa in campo non era altra cosa rispetto alla Caritas e alle associazioni di ispirazione cristiana che si sono trovate in prima linea»


L’indagine parla di irrilevanza della Chiesa, per il 39% degli italiani e il 50% dei praticanti la Chiesa avrebbe accettato troppo acriticamente le decisioni del governo.
La Chiesa italiana, come tutti, è stata colta di sorpresa dalla pandemia; ma subito diocesi e parrocchie si sono date da fare con catechesi, contatti, celebrazioni, forme di assistenza spontanee e organizzate. Il periodo del lockdown è stato creativo per la vita ecclesiale. Conosco bene tuttavia le critiche, perché nella primavera dello scorso anno la mia casella e-mail, come quella di ogni vescovo, è stata invasa da proteste: devo dire però che vi è stato non solo chi ha rilevato un’acquiescenza acritica alle disposizioni governative, ma anche chi, con pari energia, ha contestato la dissonanza espressa dalla Cei rispetto alle esitazioni del governo. Secondo me si è svelata, più che una remissività della Chiesa italiana (poteva fare altro, se voleva assumere un atteggiamento responsabile?), una divisione forte, motivata più da appartenenze politiche differenti che da convinzioni di fede. E questo ci deve far riflettere: se ha maggior peso il partito rispetto alla comunità di fede, quale profondità ha raggiunto il Vangelo nell’animo dei cattolici?

Sotto il profilo della presenza nel sociale, che anno è stato? Non c’è il rischio che si finisca per considerare la Chiesa alla stregua di una Ong? Come evitare questo pericolo?
Meglio rischiare di essere scambiati per una Ong che tirare i remi in barca. E le nostre comunità hanno remato in genere con vigore. Il raddoppio straordinario della somma dell’8xmille, deciso dalla Cei, ha permesso a tutte le nostre diocesi di impiegare denaro – ben prima del Recovery Fund – non solo per gli interventi di immediato soccorso, come alimenti, medicinali e bollette, ma anche per iniziative di tipo educativo e formativo, attraverso parrocchie, associazioni e istituzioni, in primis la Caritas. Mi stupisce, nelle indagini sociologiche, che il riconoscimento verso le associazioni di volontariato sia altissimo, mentre quello verso “la Chiesa” sia piuttosto basso: segno che non si è colto – forse anche per colpa nostra – che “la Chiesa” in campo non era altra cosa rispetto alla Caritas e alle associazioni di ispirazione cristiana che erano state in prima linea.

Da più parti si segnala, e non solo in Italia, un calo della partecipazione. Da cosa partire per provare a invertire la rotta? L’associazione “Essere qui” indica la necessità di “uscire”, cioè per così dire di cercare la Chiesa fuori dalla Chiesa.
Sì, a patto che non venga intesa come “passeggiare” ma come “pellegrinare”. Una Chiesa in uscita non rinuncia all’annuncio, alla liturgia e alla fraternità, ma cerca di portarli anche fuori della canonica; entra nelle case – il “sacerdozio battesimale” lo si può valorizzare meglio anche dentro la “Chiesa domestica” – e ascolta l’umano. Gesù è uscito di casa verso i 30 anni: prima che cos’ha fatto? Ha ascoltato l’umano, si è immerso nella vita quotidiana, ha vissuto le relazioni, ha lavorato. Anche per questo ha saputo, da adulto, intercettare con grande profondità il deposito del cuore umano. La Chiesa “esce” davvero quando ascolta le domande prima di dare le risposte; o meglio, quando si lascia provocare dalle domande per cercare, insieme a chi domanda, le risposte nel Vangelo di Gesù.

Papa Francesco ha detto più volte che peggio di questa crisi c’è solo il rischio di sprecarla. Secondo lei stiamo correndo questo pericolo?
Sì. Ci sono alcuni segnali che denotano un’eccessiva fretta di riprendere tutto come prima. E se già prima, come sappiamo, tante cose non funzionavano, volerle riproporre tali e quali dopo la pandemia significherebbe votarsi alla desertificazione pastorale. O abbiamo il coraggio di ripartire sulle basi evangeliche già accennate – ascolto, incontro, semplicità – oppure rischiamo di trascinarci una carovana ormai senza ruote.

Che Italia è quella che sta affrontando questa stagione così tragica? Più solidale, più attenta agli altri o più chiusa in se stessa e nei suoi particolarismi?
L’una e l’altra. Soprattutto all’inizio è emersa una grande generosità, uno “spirito di squadra”, che ha portato a gesti di dono, cura e perfino eroismo. I frutti dello Spirito si sono visti anche in tante persone che non frequentano le nostre comunità. Ma con la seconda e terza ondata non solo gli entusiasmi si sono raffreddati, ma si sono resi più evidenti anche i segnali di chiusura e di ripiegamento. C’è però una grande “messe” da valorizzare, ad opera dei cristiani: la sofferenza vissuta da tutti, sotto forma di paura o di malattia, di lutto o di impoverimento. La Chiesa, per statuto del suo fondatore, deve ricominciare da chi è fuori dai riflettori ed è lasciato, ferito, al bordo della strada.