Molte pagine di letteratura spirituale sono state scritte per creare una certa diffidenza nei confronti della gioia. Queste pagine a volte hanno tratto ispirazione da una errata interpretazione delle “beatitudini evangeliche” che voleva la beatitudine, la gioia rimandata nell’aldilà, quasi a premio di una vita tribolata in questo mondo. Questa prospettiva si è come cristallizzata in un testo, per altri aspetti molto pregevole, che ha avuto un grande influsso nella formazione spirituale. Mi riferisco alla Imitazione di Cristo che ammonisce: «Tutte le delizie terrene o sono vane o sono turpi» (II,10), e ricorda: «Non si può godere due volte: gioire prima in questo mondo e poi regnare con Cristo» (I,24).
Questo “aut aut” che ripeto, ha pesato nella formazione spirituale di molte generazioni, ha portato al convincimento che la gioia con tutte le sue manifestazioni umane sia esperienza che non si addice a chi intraprende un serio cammino spirituale. Mentre la “gravitas” del portamento e la tristezza sono state considerate atteggiamenti più compatibili con l’ideale cristiano, per cui i modelli proposti abitualmente erano quelli di santi che usavano il cilicio, fuggivano il mondo e si privavano anche dei piaceri leciti.
A volte i cristiani hanno dato l’impressione che il cristianesimo fosse una religione triste, tetra, fatta di pesanti doveri che mortificano la vita: da un parte sembra esserci una èlite trainante “incallita nel bene” e dall’altra un gregge che segue con passo stanco e col respiro asmatico. Evidenzia Papa Francesco: «Ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua» (EG, 6).
“La vostra gioia sia piena”
Se si pone, però attenzione alla rivelazione biblica ci si rende conto facilmente che questa tradizione si era allontanata dall’orizzonte presente nel dato rivelato. Il Dio della Bibbia, infatti, è un Dio che gioisce delle sue opere (Sal 104,31). Secondo un detto rabbinico famoso, Dio viene sulla terra a cercare una sposa per sé. Dio si sposa con noi e l’immagine della festa sponsale rimane una immagine centrale anche nella predicazione di Gesù (Mt 22,1ss. “È simile il regno dei cieli a un re il quale fece un banchetto di nozze per suo figlio”).
In Gv 3,29 sono riferite le parole del Battista, che gioisce nel sentire la voce dello sposo: Giovanni Battista ha già sentito in sé l’esultanza di Dio che ha trovato la sposa; la gioia di Dio il quale, pur essendo nella pienezza infinita della vita e della gloria, ha voluto unire la sua vita a quella dell’umanità perché «la sua delizia è stare con i figli dell’uomo» (Pr 8,31). È per questo evento che la liturgia della prima chiesa cantava: «Sono giunte le nozze dell’Agnello, la sua sposa è pronta» (Ap 19,7). È il grido di esultanza della sposa ed è l’annuncio del Vangelo: il Regno di Dio è vicino, l’Agnello è venuto a sposarsi.
Nel vangelo di Luca l’annuncio della gioia è annotato di continuo. È la gioia promessa dall’angelo nell’annuncio a Zaccaria (Lc 1,14-15); la gioia di Maria, il cui spirito «esulta in Dio» (1,47); è la gioia annunciata ai pastori (2,10); è la gioia della gente comune là dove si manifesta la potenza della parola di Gesù (13,17); è la gioia dei discepoli che tornano dalla missione (10,17) o che fanno festa all’entrata di Gesù in Gerusalemme (19,37). Ma per Luca c’è un motivo di gioia tutto particolare nella rivelazione dell’amore perdonante di Dio.
Le nozze dell’Agnello sono una grande riconciliazione, un abbraccio amoroso di Dio all’uomo. Questo motivo viene illustrato dallo stupendo trittico delle parabole della misericordia (Lc 15): la pecorella smarrita che il pastore mette sulle sue spalle; la dracma perduta che la donna ritrova e fa festa «con le amiche e vicine»; il figliol prodigo a cui il padre getta le braccia al collo, commosso per il suo ritorno. In tutto il capitolo per nove volte ricorrono espressioni di gioia e di festa. Jeremias dice: «La misericordia di Dio è talmente inconcepibile che la sua gioia nel dare il perdono è la più grande delle sue gioie».
Alla gioia del Padre celeste si unisce quella di Gesù, il quale «esulta nello Spirito Santo» (10,21), perché il Padre ha nascosto i misteri del Regno ai dotti e li ha rivelati ai piccoli (gr. “nepìoi = i senza parola”): è la gioia di Gesù per lo stile e per il modo di agire del padre, che è quello di considerare destinatari della infinita ricchezza del suo segreto coloro che sono “senza parola”, senza diritti; quelli che sono i più poveri di tutti.
Alla gioia del Padre che dona misericordia e a quella del Figlio che ne esulta, fa riscontro quella dell’uomo che si sente gratuitamente rigenerato e restituito alla sua dignità di figlio. Ed è ancora solo Luca a riportare l’incontro pittoresco e vivo di Zaccheo con Gesù. Quest’uomo che «voleva vedere chi fosse Gesù», si vede sopravanzato dall’amore di Gesù, il quale si autoinvita a casa sua, e vi annuncia l’avvenuta salvezza (Lc 19.1-10).
Il tema della gioia è presente anche negli scritti giovannei e si rivela essenzialmente nel rapporto tra Cristo e i discepoli . «Gesù gioisce per loro (Gv 11,15), parla della sua gioia da comunicare ai suoi (Gv 15, 11; 17, 13) e della gioia dei suoi in relazione a se stesso (Gv 14,28; 16,20. 22. 24; 20,20). Per Giovanni, la gioia è un dono talmente prezioso che va chiesta e invocata nella preghiera : «Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà. Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena» (Gv 16, 23-24).
L’appello del vangelo
Se questo è l’annuncio evangelico, in questo annuncio è anche contenuto l’atteggiamento che il cristiano deve tenere di fronte ad esso. Per seguire e servire il Signore con gioia occorre prima sentire tutta la preziosità unica di ciò che Gesù ci propone per la vita. L’immagine di Gesù usata in Matteo 13,44-46, conferma questo orizzonte biblico:
«Il regno dei cieli è simile ad un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Mt 14,44). La stessa logica è ripetuta da Matteo nella parabola seguente della “perla preziosa”. Dice Bruno Maggioni: «Chi agisce così non si sottopone ad un sacrificio, ma fa un affare: un vero e proprio colpo di fortuna che nessuno, che abbia appena un poco di buon senso, si lascerebbe sfuggire».
Il Regno, quindi, è paragonato ad un «tesoro nascosto» e ad una «perla di inestimabile valore»; di fronte ad esso l’agire del discepolo è elementare ed immediato: tutto ciò che possiede lo investe, «pieno di gioia», nell’acquisto di ciò che ha trovato. Per cui il vero discepolo del Regno non dice “ho lasciato, ho venduto, ho rinunciato”, ma dice “ho trovato un tesoro, ho fatto un affare, mi è capitata una fortuna”. Il cuore del discorso di Gesù sta qui: la radicalità del distacco, la totalità del coinvolgimento nel Regno, non sono che la conseguenza di una consapevolezza, quella di poter appartenere ad una realtà unica per la propria vita.
Se egli lascia tutto, è perché è concentrato completamente su un EVENTO, (si tratta di un VOLTO di cui ci si è innamorati) stimato come una fortuna unica; e questa concentrazione ha una sua molla significativa, la gioia; infatti la traduzione letterale dice «per la gioia». La gioia esplode per il ritrovamento del tesoro, ed essa è tale che trasforma completamente anche il sapore della vendita: questa non è più simbolo di un prezzo da pagare, di una fatica da sostenere, di una privazione da imporsi; essa diventa la posta in gioco perché il tesoro diventi nostro.
La gioia, frutto dello Spirito
La riflessione teologica contemporanea sta riscoprendo la piena umanità di Gesù come parte integrante del suo ruolo salvifico, ed evidenzia con interesse le sue capacità di humour, evidenti in certi passi dei Vangeli, e soprattutto mostra interesse per la sua possibile immagine di uomo felice. Gesù esulta e sorride, gioisce delle amicizie, sa stare con gioia a mensa con i giusti e con i peccatori ed è fonte di gioia e di consolazione per tutti quelli che incontra.
Desiderio di Gesù è che il nostro cuore si rallegri e che nessuno possa rapirci la sua gioia (Gv 16,22-23). Il vivere il suo progetto è finalizzato a suscitare e ad alimentare la gioia: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15, 10s). Paolo evidenzia che la gioia, di cui Gesù ci rende partecipi, è frutto dello Spirito (Gal 5,22), che affiora nella vita dell’uomo come conseguenza del suo dimorare nell’amore trinitario.
Questa gioia, quindi, non è qualcosa di superfluo, ma nasce dalla consapevolezza di questo essere coinvolti nella comunione trinitaria e dal sentirsi continuamente sorretti da questo abbraccio di Dio che mette in piedi, salva e apre sempre nuovi orizzonti. Per cui il profeta può cantare: «Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete e come si gioisce quando si spartisce la preda» (Is 9,2).
Suggerisce papa Francesco in Evangelii gaudium (= EG)
«In varie maniere, queste gioie attingono alla fonte dell’amore sempre più grande di Dio che si è manifestato in Gesù Cristo. Non mi stancherò di ripetere quelle parole di Benedetto XVI che ci conducono al centro del Vangelo: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva” (Deus caritas est, 1)» (EG, 7).
L’antropologia cristiana, allora, alla luce della Rivelazione, è segnata costitutivamente dalla gioia. Anzi, la gioia, come scrive A. Louf, «è il terreno in cui ogni vita mette radice per essere in grado di esistere. Senza la gioia non potremmo vivere, o meglio non potremmo sopravvivere». L’esortazione apostolica Evangelii gaudium ci incoraggia a percorrere la strada della gioia. Si apre con una constatazione:
«1. La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia. In questa Esortazione desidero indirizzarmi ai fedeli cristiani, per invitarli a una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia e indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni» (EG 1). E subito dopo leggiamo l’invito a non sottrarsi a questo incontro vitale:
«Invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta. Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui, perché «nessuno è escluso dalla gioia portata dal Signore». Chi rischia, il Signore non lo delude, e quando qualcuno fa un piccolo passo verso Gesù, scopre che Lui già aspettava il suo arrivo a braccia aperte. (…) Egli ci permette di alzare la testa e ricominciare, con una tenerezza che mai ci delude e che sempre può restituirci la gioia. Non fuggiamo dalla risurrezione di Gesù, non diamoci mai per vinti, accada quel che accada. Nulla possa più della sua vita che ci spinge in avanti!» (EG 3).
Tenendo conto di questo orizzonte, la vita del cristiano si configura come una condizione gioiosa per cui una esperienza cristiana incapace di affermare il primato della gioia, si troverebbe in contraddizione con se stessa e destinata a lacerare la sua stessa coscienza tra attenzioni dolorose e santificate, e fughe piacevoli ma diffidate. A partire da tale prospettiva, il credente deve proporsi seriamente un progetto educativo alla gioia e alle sue manifestazioni.
Il paradosso della gioia
Frutto del dono libero dell’amore trinitario, che ci raggiunge in Cristo Gesù, la gioia evangelica non è evasione scanzonata o alienante, ma si coniuga con tutto il mistero di Cristo e quindi anche con il mistero della passione e della morte. La gioia cristiana si può vivere, allora, anche nella sofferenza, se si è uniti a colui che ne è la sorgente e la causa: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate perché grande è la vostra ricompensa nei cieli» (Mt 5, 11s).
Consapevole di questo, Paolo poteva scrivere ai cristiani di Filippi: «Anche se il mio sangue deve essere versato in libagione sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, sono contento, e ne godo con tutti voi. Allo stesso modo anche voi godetene e rallegratevi con me»(Fil 2,17s). In sostanza l’esperienza della sofferenza diventa circostanza che consente a Paolo di essere messo in sintonia con il Signore Gesù; e gioire “nel Signore” per lui non è una qualsiasi formula entusiastica, ma è il riconoscimento della presenza del Risorto su ogni vicenda umana.
Dopo Paolo altri credenti, seppure incatenati, sono stati epifania del sorriso di Dio per questo mondo. Di Policarpo viene detto che nel confessare la sua fede davanti al proconsole, prima del martirio, «era pieno di coraggio e di allegrezza e il suo volto splendeva di gioia» (Il martirio di Policarpo, XII, 1)-
Don Tonino Bello, alcuni giorni prima di morire, al termine della Messa Crismale (8 aprile 1993) fattosi portare al centro del presbiterio volle dire al suo popolo: «…Andiamo avanti con grande gioia. Io ho voluto prendere la parola per dirvi che non bisogna avere le lacrime, perché la Pasqua è la Pasqua della speranza, della luce, della gioia e dobbiamo sentirle. Io le sento veramente, perché è così, perché il Signore è risorto, perché Egli è al di sopra di tutte le nostre malattie, le nostre sofferenze, le nostre povertà. E’ al di sopra della morte. Quindi ditelo!» (A. Bello, Ti voglio bene, Luce e vita, Molfetta 1993, p. 56). Ricorda Papa Francesco:
«Posso dire che le gioie più belle e spontanee che ho visto nel corso della mia vita sono quelle di persone molto povere che hanno poco a cui aggrapparsi. Ricordo anche la gioia genuina di coloro che, anche in mezzo a grandi impegni professionali, hanno saputo conservare un cuore credente, generoso e semplice. In varie maniere, queste gioie attingono alla fonte dell’amore sempre più grande di Dio che si è manifestato in Gesù Cristo» (EG 7).
Chi nella fede fa esperienza che gioia e croce sono compatibili, è uno che si è educato alla logica evangelica del “perdersi per ritrovarsi” e che ha capito che la gioia è come l’amore e quindi è impossibile immaginarla individualmente come un patrimonio di cui essere gelosi. Senza la gioia degli altri, non è possibile avere la gioia. La testimonianza di Gesù, riportata negli Atti: «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35), sta determinando la sua vita.
Vivere le gioie del mondo
Se la gioia è l’esperienza che si produce in noi quando otteniamo che si realizzi un desiderio e il desiderio del credente è l’essere con Gesù e vivere nella propria carne il suo mistero che è di gioia certamente, ma anche di sofferenza, questo vuol dire che il discepolo di Gesù deve rinunciare alle gioie umane? Certo, è vero, la gioia autentica si trova a una grande profondità e dobbiamo scavare molto profondo in noi per permetterle di sgorgare; ecco perché ogni grande gioia è anche silenziosa: non può essere espressa, è indicibile, raramente affiora in superficie. Ma è anche vero che la gioia di questo mondo la gioia con connotazione umana non può essere ignorata e che ha la sua importanza, contiene già la gioia futura.
Come si esprimeva Paolo VI nell’enciclica Gaudete in Domino: «La gioia cristiana suppone un uomo capace di gioie naturali» (Enchiridion Vaticanum, V, 1253). E aggiungeva che Gesù stesso, nella sua umanità «ha fatto l’esperienza della nostra gioia. Egli ha manifestamente conosciuto, apprezzato, esaltato tutta una gamma di gioie umane, di quelle gioie semplici e quotidiane, alla portata di tutti. La profondità della sua vita interiore non ha attenuato il realismo del suo sguardo, né la sua sensibilità» (EV,V,1262). Aggiungeva, ancora, Gesù «ha accolto e provato le gioie affettive e spirituali, come un dono di Dio» (Loc. cit.)
Se gioia, godimento dell’amicizia, della natura, sorriso, sono valori umani che Gesù non ha rinnegato, ma che ha vissuto intensamente ponendo accanto ad essi come unico criterio di fruizione, per togliere ogni pericolo di autoinganno, il primato dell’amore e della condivisione; allora bisogna sottolineare che non è umano né cristiano rinunciare alle gioie create e volute da Dio, diffidare e astenersi dai valori della vita e della terra. Dio ha voluto che il suo servizio avvenisse nell’umano, sulla terra e che avesse come contenuto un autentico rapporto con gli uomini e con le cose, allora bisogna educarsi a saper convivere con le nostre gioie semplici e quotidiane e vigilare sempre perché esse non diventino idolo ma si ricevano dalle mani di Gesù e siano vissute nel regime dell’amore.
La gioia della relazione
Una di queste gioie semplici e quotidiane è certamente quella che deriva da una relazione realizzata. La gioia, infatti, perché frutto di un dono ricevuto, ma anche offerto, dice relazione, anzi è esperienza che si produce nell’uomo quando ottiene che si realizzi una relazione desiderata. Una relazione non solo con Dio, ma anche con le creature e con il creato. «L’uomo prova la gioia, ci ricorda, ancora, Paolo VI quando si trova in armonia con la natura, e soprattutto nell’incontro, nella partecipazione nella comunione con gli altri» (Enchiridium Vaticanum, V, 1248.).
E Gesù prega perché questa comunione si realizzi tra i suoi discepoli:«Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi»(Gv 17,11). E subito dopo aggiunge:«Perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia»(Gv 17,13). La relazione ha certamente diversa densità e si esprime quindi con manifestazioni eterogenee, ma se è vera essa va assunta sia quando si esprime nella semplice convenire per un banchetto di umana comunione, o per giocare o per far festa assieme, sia quando il rapporto si fa più denso nella realtà familiare e nell’amicizia profonda.
Tra gli amici
Una relazione fonte di gioia è quella tra amici. «Chi trova un amico, trova un tesoro» (Sir 6,14), ci ricorda la sapienza biblica. L’amicizia è qualcosa di più del semplice stare insieme. Essa è per sua natura gratuita: nasce dove non si è piantato, cresce senza bisogno di giuramento o di legge. Improvvisa, inattesa spunta nell’intimità spirituale tra due persone e quando questo avviene si coglie l’essere dell’altra persona e nel mistero dell’altro è come se si percepisse in un riflesso debole ma reale, l’invisibile. «Cogliere l’infinito nel finito: ecco l’essenza dell’amicizia»1.
Quando questo avviene, quando si verifica un’amicizia trasparente, limpida, non accaparratrice, tutti i sensi vibrano ed esplode la gioia: «Un amico fedele è un balsamo di vita»(Sir 6,16), ci consola sempre la sapienza biblica; ed è dono di Dio: «lo troveranno quanti temono il Signore» (Sir 6,16). Nell’amicizia la provvidenza di Dio si presenta come dono che si concentra sul volto dell’amico.
Gesù ha vissuto amicizie profonde: con Lazzaro, con Marta e Maria e con loro ha pianto e ha gioito (Gv 11,5.11). Sulla scia di Gesù, nella tradizione cristiana sono presenti testimoni che hanno tratto consolazione e gioia da un autentico rapporto amicale. Tra questi, mi piace ricordare Benedetta Bianchi Porro, creatura, vicina a noi nel tempo e nel sentire. Essa, sebbene aggredita da una grave malattia: sorda, totalmente paralizzata, priva di ogni facoltà sensitiva e alla fine anche cieca ha saputo farsi amica sollecita verso chi a lei si avvicinava.
E, a sua volta, nell’affetto degli amici ha saputo cogliere una presenza che le ha consentito di vivere intensamente. All’amica Franci, scrive:«Vorrei tanto ringraziarti della tua lettera, che mi è giunta proprio quando mi sembrava di boccheggiare e sentivo la speranza sbiadire per dar posto in me ad un infinito senso di dolore e di angoscia. Poi ho avuto la gioia di farmi trasmettere le tue parole e mi è sembrato per un attimo di essere composta di vetro, e che tu scrivendomi vedessi dentro di me, nell’anima. Ho sentito che l’aiuto di Dio, tramite tuo, mi veniva incontro e mi dava una gioia più grande di quanto tu possa immaginare»2.
Benedetta ha sperimentato che Dio dona il pane che rende forti attraverso il gesto degli amici, e dalla sua estrema povertà non si è vergognata di chiedere questo pane. Certamente l’amicizia infrange i limiti del proprio io, e perciò è anche causa di dolore. Ma solo chi entra nel rischio dell’amicizia, chi non si ripiega su se stesso, ma in modo umile e con perseveranza quotidiana, passando anche attraverso tappe dolorose, va incontro all’altro in modo gratuito e contemplativo, sperimenta quanto sia gioioso «camminare in festa», assieme all’altro «verso la casa di Dio». (Sal 55, 15).
Per concludere
L’esemplificazione, ovviamente, non esaurisce le numerose gioie legate alle varie relazioni umane. Ma intenzione di questa riflessione non era questo, ma quello di evidenziare che la gioia non è un lusso nella vita umana, ma una vocazione nella quale Dio stesso ci coinvolge. La sorgente della gioia cristiana, infatti, è certamente la comunione con Dio, ma è motivo di gioia anche tutto ciò che è uscito dal cuore di Dio. Le persone, la bellezza della natura, le cose sono tutte motivo di gioia perché esse sono come orme del passaggio di Dio. È importante, allora, per il credente sapere che il gioire nel relazionarsi con le creature e con il creato non è un male, anzi è esperienza che fa crescere in umanità se la relazione è ispirata da amore gratuito.
Mi piace concludere con l’esortazione di Papa Francesco: «…un evangelizzatore non dovrebbe avere costantemente una faccia da funerale. Recuperiamo e accresciamo il fervore, “la dolce e confortante gioia di evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime […] Possa il mondo del nostro tempo – che cerca ora nell’angoscia, ora nella speranza – ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del Vangelo la cui vita irradii fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo” (EN 80)»(EG 10).
Alberto Neglia
1 L. Boros, Incontrare Dio nell’uomo, Queriniana, Brescia 1971, p. 90.
2 A. M. Cappelli ( a cura di), Il volto della speranza. Lettere di Benedetta Bianchi Porre e Testimonianze, Milano 1974, p. 135