Ci sono campioni della pastorale che davanti alla contrarietà cadono a terra come abbattuti da una mano invisibile (spesso maledicendo Dio nel loro cuore!), e ci sono umili credenti che sanno vivere il dolore con una insospettabile serenità. Meglio far parte della seconda schiera che della prima. Non a caso don Alberione – vero figlio di san Paolo (fondatore della Famiglia Paolina) – scriveva che l’apostolato più efficace, dopo la preghiera incessante, era l’accettazione del dolore.
Paolo mi inviterebbe ad andare in cerca di Cristo senza rispetti umani scegliendo la follia del Vangelo, anche con il rischio di perdere quello straccio di stima altrui che tutti ci portiamo addosso come fosse un capo di alta sartoria: «Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo dati in spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini» (1Cor 4,9). Scrive Berger: «Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei. Colui che va con il Crocifisso si fa carico della sua vergogna, come di un’odiosa malattia della pelle che contagia il viso e le mani. Colui che appartiene al Crocifisso è il rifiuto del mondo». Eppure, l’ultimo posto – come scriveva Teresa di Gesù Bambino – è l’unico luogo in cui non c’è «per nulla vanità e afflizione di spirito».
Non aver paura della marginalità. Paolo mi chiederebbe anche di non temere le zone di confine. Proprio lui, marginalizzato dai maggiorenti della chiesa del primo secolo perché considerato un <<intruso>>, un apostolo da outlet, ma nello stesso tempo capace di un amore grande e paziente verso tutti. Paolo non è uno di quei contestatori della comunità che si mettono volontariamente ai margini per mettersi le vesti fascinose del profeta radical chic. Semplicemente si è ritrovato sulla soglia senza volerlo, ma ha fatto di questa condizione una opportunità per annunciare il Vangelo a chi sostava nelle anticamere delle sinagoghe e della religiosità misterica del tempo. Si può evangelizzare senza spingersi verso i margini? Penso di no. Come non credo si possa farlo mantenendo immutate le strutture ecclesiali esistenti e i ruoli ad essi legati: non si può avere la moglie ubriaca e la botte piena.
Non basta però andare verso le periferie – termine tanto amato da Papa Francesco –, bisogna diventare periferia avendo il coraggio di chiamare per nome quello che abita nel proprio cuore e al quale non vorremmo mai dare cittadinanza. Bisogna anche che – come chiesa in Europa – smettiamo di pensarci ancora come una maggioranza (numerica e culturale). Non è più così, e non è detto che sia uno svantaggio. Arrendiamoci alla realtà per non fare la fine del tenente Hiroo Onoda, l’ufficiale giapponese che per trent’anni continuò a combattere (non si sa chi!) ignorando che la guerra fosse finita. Se ho paura della marginalità del mio cuore o di quella della comunità cristiana con fatica sarò un buon evangelizzatore.
Non aver paura di te stesso. Infine – ed è il punto più importante – Paolo con il suo sguardo mi direbbe di non aver paura di me stesso. E sì, perché in fondo tutto si gioca qui. Arthur Schopenhauer scriveva che noi «perdiamo tre quarti di noi stessi per essere come le altre persone». Quel che si è non può rimanere per sempre l’alibi di fronte all’urgenza di dare il Vangelo. È più facile vittimizzarsi che, come scriveva santa Teresina, «sopportare con dolcezza la propria infermità».
Paolo avrebbe avuto mille motivi per non fare quello cha ha fatto, a partire dal suo passato nettamente sfavorevole per chiunque avesse voluto darsi alla missione. La malattia del guardarsi indietro – senza pentirsi! – è molto diffusa. Penso che il proprio passato dovrebbe essere considerato come un passo carrabile: bisogna sapere che c’è, ma per rispettarlo non è bene sostarvi molto tempo davanti. Essere un po’ controcorrente, lucidamente matti, poco social e con tanti limiti… Insomma, che siamo vasi di creta per Dio è tutt’altro che un problema! Facciamo in modo che non lo sia anche per noi. Non bisogna nemmeno aver paura di quel che sarà, del futuro incerto. Ma soprattutto della morte. Certo vivere non è stato mai facile per nessuno e non lo sarà nemmeno per noi; ma non per questo siamo obbligati a credere a tutte le bugie che la morte racconta. Non facciamoci illusioni: la nostra piccola vita non cambierà il mondo, ma il Vangelo che portiamo sì.
Anche Paolo aveva paura – le benedette tribolazioni – ma ha avuto l’accortezza di mettere benzina sul fuoco dei due desideri grandi che lo Spirito aveva trapiantati nel suo cuore. Lo confessava lui stesso ai filippesi quando scriveva di non sapere bene, davanti all’eventualità di una morte imminente (una delle tante!), cosa preferire: «Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo» (Fil 1,21-24).
Paradiso e Vangelo: i due desideri di Paolo, i due pensieri fissi che «in perpetuo signori dati mi sono», per usare un verso di Leopardi. Tutti e due dello stesso peso. Paradiso – termine che, esclusa l’Apocalisse, solo Paolo usa insieme al discepolo Luca (cfr. Lc 23,43; 2Cor 12,4) – come dimensione definitiva dello stare con il Signore dopo questo esilio che ci separa da lui (cfr. 2Cor 5,6), come approdo in cui diventa irreversibile il compromesso con lui. Paradiso come sigillo alla fedeltà tenace verso la bontà di Dio (cfr. Rm 11,22), come premio per la buona battaglia combattuta, come riposo alla fine di una corsa agonistica (cfr. 2Tm 4,7-8). Per noi che ormai viviamo tutto in streaming – violentando il tempo e ignorandone le profondità – questo futuro definitivo di pace sembra forse cosa troppo lontana, e quindi non desiderabile. Vangelo, la leva con cui Paolo ha sollevato il suo mondo raccontando che non è il merito la porta di accesso a Dio ma la sua misericordia.
Paradiso e Vangelo. Il binomio che ha stravolto – che lo si voglia o no – il mondo occidentale. Difficilissimo trovare questi due desideri nei cristiani (e anche nei chiamati!). Lo stare con il Signore al di là del tempo e dello spazio, raggiungendo il suo glorioso silenzio, e consumare nel frattempo l’esistenza per raccontare che esiste una Parola che rende liberi, non sono desideri molto gettonati. Forse la paura è solo il sintomo di una vita senza passioni, o anche di una vita animata da passioni tristi immortalate in un selfie, il gesto tipico di chi sopravvive. Se si hanno grandi desideri ci si può anche permettere il lusso di essere limitati, fragili, peccatori. Bisogna temere il Creatore e non gli uomini.
Nella cattedrale della diocesi di Roma alla destra dell’altare maggiore c’è una bella statua di san Paolo, opera settecentesca del Monnot, con la mano destra alzata a indicare il bassorilievo in gesso posto sopra la sua testa dove Gesù morente in croce dona il Paradiso al buon ladrone. Secondo me questo è il racconto evangelico che meglio di ogni altro spiega plasticamente cosa intendesse Paolo per <<giustificazione del peccatore mediante la fede>>. Nel bassorilievo c’è tutto il Vangelo di Paolo: chi si ispira a lui non può che annunciare questa notizia di consolazione per tutti gli esclusi. Ma c’è ancora una cosa da notare. Sopra il bassorilievo un tondo di Sebastiano Conca raffigura Geremia – il profeta più amato dall’Apostolo – che preannuncia la distruzione di Gerusalemme. Geremia, l’inviato di Dio più perseguitato dell’Antico Testamento a causa delle sue <<sgradite>> parole. Messaggio chiaro: chi annuncia la misericordia di Dio… non se ne aspetti tanta dai suoi simili.