Oggi sono stato a Torino per l’ordinazione del nuovo arcivescovo. Ho parcheggiato vicino ad alcuni vescovi del Piemonte e con loro mi sono avviato verso il sagrato della cattedrale. Per la solenne occasione eravamo vestiti con la talare filettata e la fascia. Nel cammino passiamo vicino ad una panchina dove stavano seduti alcuni giovani. Uno, con voce sorpresa, dice agli altri: “Chi sono questi, vestiti così strani?”. Non era una frase di scherno o di critica. Nessuno ha riso né ha fatto commenti volgari. Era davvero una domanda.
Quei giovani non sanno più riconoscere l’abito di un vescovo. Per loro eravamo marziani o, peggio, costumanti vestiti con abiti d’altri tempi. Extraterrestri o animali preistorici. Oggetti estranei, non identificati. Quella domanda mi è rimasta in cuore. Durante la Celebrazione di tanto in tanto guardavo la piazza, i palazzi, la zona di Porta Palazzo. Da poco avevo attraversato proprio il mercato di Porta Palazzo, piena di gente di mille etnie diverse. Ora guardo la città, che per lo più ignora la celebrazione che stiamo vivendo. Molti appartengono ad altre religioni e ad altre confessioni; molti sono atei o agnostici, molti sono indifferenti.
La città gira su altre lunghezze d’onda, su altre priorità, su altre culture. I giovani della panchina si domandavano chi fossimo e durante la celebrazione sicuramente molti passanti si saranno chiesti: “Che cosa fanno quei tali vestiti con quegli strani cappelli in testa?”. Stiamo celebrando un’Eucarestia. Su questa piazza stiamo celebrando la morte e la risurrezione di Cristo. La gente guarda da lontano, presa da sogni, problemi e ferite. Guarda e non capisce. Guarda e trova tutto così lontano dalla propria vita, dal proprio mondo. È sabato. Passeggiano sotto i portici, portandosi in cuore una settimana carica di lavoro, studio, fatiche, gioie, progetti.
Portandosi in cuore la loro preziosissima vita. E “lo spettacolo” della nostra Messa non dice loro più nulla. Forse si chiedono stupiti: “A che serve tutto questo? A che serve una Messa, a che serve una fede?”. Seduto in alto, sul sagrato, mi sembra quasi di essere in vetrina. Un manichino, vestito strano, messo in vetrina. Forse la Chiesa è vista così: una roba strana, antica, inutile. Mi girano in mente questi pensieri mentre la celebrazione procede. Guardo sovente lo splendido Crocifisso che sta davanti a me. Anche Lui dalla croce guardava la gente che passava indifferente ai suoi piedi, addirittura irriverente. E con infinito amore morì anche per loro. Ecco il senso di questa celebrazione: un ottimo allenamento ad amare tutti, credenti e non credenti, praticanti e non praticanti.
Ecco il mio compito di vescovo: guidare la mia Chiesa a stare con umiltà in mezzo alla società, senza pretese, con una voglia matta di aiutare ogni uomo e ogni donna a vivere, a trovare fiducia e speranza. Stare in mezzo alla società con la stessa dedizione gratuita di Cristo. Sapendo che proprio questo è l’atteggiamento del Risorto: anche oggi si fa umile compagno di viaggio, garantendo a tutti il compimento della vita. Proprio quello che stiamo celebrando: in Lui, fiduciosi verso il compimento.
L’Eco del Chisone, 11 maggio 2022 Derio Olivero, vescovo di Pinerolo