Il pensiero moderno, illuminista, nasce all’insegna della massima di vivere “etsi Deus non daretur”, come se Dio non esistesse. Il pastore Dietrich Bonhoeffer riprese questa massima, cercando di darle un contenuto cristiano positivo. Nelle sue intenzioni, essa non era una concessione fatta all’ateismo, ma un programma di vita spirituale: fare il proprio dovere anche quando Dio sembra assente; in altre parole, non fare di lui un Dio – tappabuchi, sempre pronto a intervenire là dove l’uomo ha fallito.
Anche in questa versione, la massima è discutibile ed è stata, giustamente, contestata (tra gli altri da esempio da Benedetto XVI). Ma a noi in questo momento essa interessa per tutt’altra ragione. Esiste un pericolo mortale per la Chiesa ed è quello di vivere “etsi Christus non daretur”, come se Cristo non esistesse. È il presupposto con cui il mondo e i suoi mezzi di comunicazione parlano tutto il tempo della Chiesa. Di essa interessano la storia (soprattutto quella negativa, non quella della santità), l’organizzazione, il punto di vista sui problemi del momento, i fatti e i pettegolezzi interni ad essa. A stento si trova nominata una volta la persona di Gesú. È stata proposta qualche anno fa l’idea di una possibile alleanza tra credenti e non credenti, basata sui valori civili ed etici comuni, sulle radici cristiane della nostra cultura e via dicendo. Una intesa, in altre parole, non basata su ciò che è avvenuto nel mondo con la venuta di Cristo, ma su ciò che è avvenuto in seguito, dopo di lui.
A ciò si aggiunge un fatto oggettivo, purtroppo inevitabile. Cristo non entra in questione in nessuno dei tre dialoghi più vivaci in atto oggi tra la Chiesa e il mondo. Non entra nel dialogo tra fede e filosofia, perché la filosofia si occupa di concetti metafisici, non di realtà storiche come è la persona di Gesù di Nazareth; non entra nel dialogo con la scienza, con la quale si può unicamente discutere dell’esistenza o meno di un Dio creatore e di un progetto intelligente al di sotto dell’evoluzione; non entra, infine, nel dialogo interreligioso, dove ci si occupa di quello che le religioni possono fare insieme, nel nome di Dio, per il bene dell’umanità.
Nella preoccupazione – per altro, giustissima – di rispondere alle esigenze e alle provocazioni della storia e della cultura, noi corriamo il pericolo mortale di comportarci, anche noi credenti, “etsi Christus non daretur”. Come se si potesse parlare della Chiesa prescindendo da Cristo e dal suo Vangelo. Mi hanno fortemente colpito le parole pronunciate dal Santo Padre nell’Udienza Generale del 25 Novembre scorso. Diceva –e si capiva dal tono che la cosa lo toccava in modo particolare:
Troviamo qui [in Atti degli apostoli, 2, 42] quattro caratteristiche essenziali della vita ecclesiale: l’ascolto dell’insegnamento degli apostoli, primo; secondo, la custodia della comunione reciproca; terzo, la frazione del pane e, quarto, la preghiera. Esse ci ricordano che l’esistenza della Chiesa ha senso se resta saldamente unita a Cristo, cioè nella comunità, nella sua Parola, nell’Eucaristia e nella preghiera. È il modo di unirci, noi, a Cristo […]. La predicazione e la catechesi testimoniano le parole e i gesti del Maestro; la ricerca costante della comunione fraterna preserva da egoismi e particolarismi; la frazione del pane realizza il sacramento della presenza di Gesù in mezzo a noi: Lui non sarà mai assente, nell’Eucaristia è proprio Lui. Lui vive e cammina con noi. E infine la preghiera, che è lo spazio del dialogo con il Padre, mediante Cristo nello Spirito Santo. Tutto ciò che nella Chiesa cresce fuori da queste “coordinate”, è privo di fondamenta”.
Le quattro coordinate della Chiesa, come si vede, si riducono, nelle parole del papa, a una sola: rimanere ancorata a Cristo. Tutto questo ha fatto nascere in me il desiderio di dedicare queste meditazioni quaresimali alla persona di Gesú Cristo. Ho dovuto superare, io per primo, una obiezione. Uno sguardo all’indice dei documenti del Vaticano II, alla voce “Gesú Cristo”, o una veloce scorsa attraverso i documenti pontifici degli ultimi anni ci dice di lui infinitamente più di quello che possiamo dire in queste brevi meditazioni quaresimali. Qual è allora l’utilità di scegliere questo tema? È che qui si parlerà solo di lui, come se esistesse solo lui e valesse la pena di occuparsi solo di lui (che è poi, in definitiva, la verità delle cose!).
Lo possiamo fare perché non siamo costretti, come lo è il Magistero, a occuparci anche di altro: dei problemi pastorali, di quelli etici, sociali, ambientali; in questo momento, dei problemi creati dalla pandemia. Guai, naturalmente, a fare solo quello che facciamo qui, ma guai a non farlo mai. Dalla mia esperienza con la televisione, ho imparato una cosa. Esistono vari modi di inquadrare un oggetto. C’è il “totale”, in cui si inquadra chi parla con tutto ciò che lo circonda; c’è poi il “primo piano” in cui si inquadra solo la persona che parla, e c’è infine il cosiddetto “primissimo piano” in cui si inquadra soltanto il volto o addirittura solo gli occhi di chi parla. Ecco, in queste meditazioni, noi ci proponiamo di fare, con l’aiuto di Dio, dei primissimo piani sulla persona di Gesú Cristo.
Il nostro intento non è apologetico, ma spirituale. In altre parole, non parliamo per convincere gli altri, i non credenti, che Gesú Cristo è il Signore, ma perché egli divenga sempre più realmente il Signore della nostra vita, il nostro tutto, al punto da sentirci anche noi, come l’Apostolo, “conquistati da Cristo” (Fil 3, 12) e poter dire con lui –almeno come desiderio – “Per me vivere è Cristo” (Fil 1,21).
La domanda che ci accompagnerà non sarà dunque: “Che posto occupa oggi Gesú nel mondo o nella Chiesa, ma: “Che posto occupa Gesú nella mia vita?” Sarà questo, oltretutto, il mezzo migliore per invogliare altri a interessarsi di Cristo, il modo più efficace cioè di fare evangelizzazione.
Ma anzitutto una chiarificazione. Di quale Cristo intendiamo parlare? Esistono infatti diversi “Cristi”: c’è il Cristo degli storici, dei teologi, dei poeti, esiste perfino il Cristo degli atei . Parliamo del Cristo dei Vangeli e della Chiesa. Più precisamente, del Cristo del dogma cattolico che il concilio di Calcedonia del 451 ha definito nei termini che, una volta tanto, è bene riascoltare, almeno in parte, nel testo originale:
Seguendo i santi Padri, all’unanimità noi insegniamo a confessare
un solo e medesimo Figlio: il Signore nostro Gesù Cristo,
perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità,
vero Dio e vero uomo, [composto] di anima razionale e del corpo,
consostanziale al Padre per la divinità, e consostanziale a noi per l’umanità,
simile in tutto a noi, fuorché nel peccato […],
uno e medesimo Cristo Signore unigenito; da riconoscersi in due nature […],
non essendo venuta meno […] la proprietà di ciascuna natura, e concorrendo a formare una sola persona e ipostasi .
Possiamo parlare di un triangolo dogmatico su Cristo: i due lati sono l’umanità e la divinità di Cristo e il vertice l’unità della sua persona.
Il dogma cristologico non vuole essere una sintesi di tutti i dati biblici, una sorta di distillato che racchiude in sé tutta l’immensa ricchezza delle affermazioni riguardanti Cristo che si leggono nel Nuovo Testamento, riducendo il tutto alla scarna e arida formula: « due nature, una persona ». Se così fosse, il dogma sarebbe tremendamente riduttivo e anche pericoloso. Ma non è così. La Chiesa crede e predica di Cristo tutto ciò che il Nuovo Testamento afferma di lui, nulla escluso. Mediante il dogma, ha solo cercato di tracciare un quadro di riferimento, di stabilire una specie di «legge fondamentale» che ogni affermazione su Cristo deve rispettare. Tutto ciò che si dice di Cristo deve ormai rispettare quel dato certo e incontrovertibile: cioè che egli è Dio e uomo nello stesso tempo; meglio, nella stessa persona.
I dogmi sono delle « strutture aperte » (Bernhard Lonergan), pronte ad accogliere tutto ciò che di nuovo e di genuino ogni epoca scopre nella parola di Dio. Sono aperti ad evolversi dal loro interno, purché sempre « nello stesso senso e nella stessa linea ». Senza, cioè, che l’interpretazione data in una epoca contraddica quella dell’epoca precedente. Accostarsi a Cristo per la via del dogma non significa perciò rassegnarsi a ripetere stancamente sempre le stesse cose su di lui, magari cambiando soltanto le parole. Significa leggere la Scrittura nella Tradizione, con gli occhi della Chiesa, cioè leggerla in modo sempre antico e sempre nuovo.
Cristo uomo perfetto
Vediamo cosa significa tutto questo, applicato al dogma della perfetta umanità di Cristo. Durante la vita terrena di Gesù nessuno pensò mai di mettere in dubbio la realtà dell’umanità di Cristo, cioè il fatto che egli fosse veramente un uomo come gli altri. Quando parla dell’umanità di Gesù, il Nuovo Testamento si mostra interessato più della santità di essa, che della verità o realtà di essa, cioè più della sua perfezione morale che della sua completezza ontologica.
Al momento del concilio di Calcedonia questa idea dell’umanità di Cristo non è cambiata, ma l’attenzione non è più su di essa. Contro l’eresia docetista, la Chiesa ha dovuto affermare che Cristo aveva avuto una vera carne umana; contro l’eresia Apollinarista, che aveva avuto anch’un’anima umana e contro l’eresia Monotelita dovrà lottare più tardi, nel VII secolo, per fare riconoscere l’esistenza in Cristo anche di una volontà, e quindi di una libertà, veramente umana. A causa delle eresie accennate, tutto l’interesse per il Cristo «uomo» si sposta dal problema della novità, o santità, di tale umanità, a quello della sua verità o completezza ontologica.
Il Nuovo Testamento dicevo – non è interessato tanto ad affermare che Gesù è un uomo “vero”, quanto che è l’uomo « nuovo ». Egli è definito da san Paolo «l’Adamo ultimo » (eschatos), cioè «l’uomo definitivo » (cfr. 1Cor 15,45ss.; Rm 5,14). E’ “l’Immagine di Dio” (Col 1,15), a immagine del quale, secondo sant’Ireneo, è stato creato l’uomo. Cristo ha rivelato l’uomo nuovo, quello « creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera» (Ef 4,24; cfr. Col 3,10). Gesú Cristo è “il Santo di Dio”: così egli è solennemente proclamato in due momenti della sua vita terrena (Lc 4,34; Gv 6,69). Gesù non è tanto l’uomo che somiglia a tutti gli altri uomini, quanto l’uomo al quale tutti gli altri uomini devono somigliare. Solo di lui si deve dire ciò che i filosofi greci dicevano dell’uomo in genere, e cioè che egli è “la misura di tutte le cose”!
Una volta messo al sicuro il dato dogmatico e ontologico della perfetta umanità di Cristo, oggi noi possiamo tornare a valorizzare questo dato biblico primario. Dobbiamo farlo anche per un altro motivo. Nessuno oggi nega che Gesù sia stato un uomo, come facevano i docetisti e gli altri negatori della piena umanità di Cristo. Si assiste anzi a un fenomeno strano e inquietante: la «vera» umanità di Cristo viene affermata in tacita alternativa alla sua divinità, come una specie di contrappeso.
È una specie di corsa generale a chi si spinge più avanti nell’affermare la «piena» umanità di Gesù di Nazareth, fino ad attribuirgli non solo la sofferenza, l’angoscia, la tentazione, ma anche il dubbio e perfino la possibilità di commettere errori. Così il dogma di Gesù «vero uomo» è diventato o una verità scontata che non disturba e non inquieta nessuno; peggio, una verità pericolosa che serve a legittimare, anziché contestare, il pensiero secolare. Affermare la piena umanità di Cristo è oggi come sfondare una porta aperta.
La santità di Cristo
Dedichiamo dunque il resto del tempo a nostra disposizione a contemplare (è la parola giusta) la santità di Cristo, a lasciarcene abbagliare, prima di trarne qualsiasi conseguenza operativa. È questo il “primissimo piano” su Gesú che vogliamo fare in questa meditazione: lasciarci affascinare dalla infinita bellezza di Cristo, il “più bello tra i figli dell’uomo”.
L’osservazione dei vangeli ci fa vedere che la santità di Gesù non è solo un principio astratto, o una deduzione metafisica, ma è una santità reale, vissuta momento per momento e nelle situazioni più concrete della vita. Le Beatitudini, per fare un esempio, non sono solo un bel programma di vita che Gesù traccia per gli altri; è la sua stessa vita e la sua esperienza che egli svela ai discepoli, chiamandoli ad entrare nella sua stessa sfera di santità. Le beatitudini sono l’autoritratto di Gesú.
Egli insegna quello che fa; per questo può dire: « Imparate da me che sono mite ed umile di cuore» (Mt 11,29). Egli dice di perdonare i nemici, ma si spinge, egli stesso, fino a perdonare quelli che lo stanno crocifiggendo, con le parole: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Non è, del resto, questo o quell’episodio che si presta per illustrare la santità di Gesù, ma ogni azione, ogni parola uscita dalla sua bocca.
Accanto a questo elemento positivo che consiste nella costante e assoluta adesione alla volontà del Padre, la santità di Cristo presenta anche un elemento uno negativo che è l’assoluta mancanza di ogni peccato, «Chi di voi può convincermi di peccato? », dice Gesù ai suoi avversari (Gv 8,46). Su questo punto abbiamo un coro unanime di testimonianze apostoliche: « Egli non aveva conosciuto peccato» (2 Cor 5,21); «egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca» (1 Pt 2,22); « egli fu provato in ogni cosa a somiglianza di noi, escluso il peccato » (Eb 4,15); «tale era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori» (Eb 7,26). Giovanni, nella prima lettera, non si stanca di proclamare: «Egli è puro … ; in lui non v’è peccato … ; egli è giusto» (1 Gv 3,3-7).
La coscienza di Gesù è un cristallo trasparente. Mai la benché minima ammissione di colpa, o richiesta di scuse e di perdono, né nei confronti di Dio, né degli uomini. Sempre la tranquilla certezza di essere nella verità e nel giusto, di aver agito bene; che è tutt’altra cosa dall’umana presunzione di giustizia. Nessun altro personaggio della storia ha osato dire di sé la stessa cosa.
Una tale assenza di colpa – e di ammissione di colpa!- non è legata a questo o quel passo o detto del vangelo, della cui storicità si possa dubitare, ma trasuda da tutto il vangelo. È uno stile di vita che si riflette in tutto. Si può frugare nelle pieghe più riposte dei vangeli e il risultato è sempre lo stesso. Non basta a spiegare tutto ciò l’idea di un’umanità eccezionalmente santa ed esemplare. Questa infatti sarebbe piuttosto smentita da quello. Una tale sicurezza, una tale esclusione di peccato, come quella che si nota in Gesù indicherebbe sì un’umanità eccezionale, ma eccezionale nell’orgoglio, non nella santità. Una coscienza così fatta o è in se stessa il più grande peccato mai commesso, più grande di quello di Lucifero, o è invece la pura verità. La risurrezione di Cristo e la storia successiva del cristianesimo sono la prova concreta che era la pura verità.
«Santificati in Cristo Gesù»
Ora passiamo a vedere quello che la santità di Cristo significa per noi. E qui ci viene incontro subito una buona notizia. C’è infatti una buona notizia, un lieto annuncio, anche a proposito della santità di Cristo. Esso non è tanto che Gesù è il Santo di Dio, o il fatto che anche noi dobbiamo essere santi e immacolati. No, la lieta sorpresa è che Gesù comunica, dona, regala a noi la sua santità. Che la sua santità è anche la nostra. Di più: che egli stesso è la nostra santità.
Ogni genitore umano può trasmettere ai figli ciò che ha, ma non ciò che è. Se è un artista, uno scienziato, o anche un santo, non è detto che i figli nascano anche loro artisti, scienziati o santi. Egli può al massimo insegnarle loro, dare loro un esempio, ma non trasmetterle quasi in eredità. Gesù, invece, nel battesimo, non solo ci trasmette ciò che ha, ma anche ciò che è. Egli è santo e ci fa santi; è Figlio di Dio e ci fa figli di Dio.
Lo riafferma anche il Vaticano II: “I seguaci di Cristo, chiamati da Dio, non a titolo delle loro opere, ma a titolo del suo disegno e della grazia, giustificati in Gesù nostro Signore, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi” (LG, 40).
La santità cristiana, prima che un dovere, è un dono. E’ ciò che distingue la religione cristiana da ogni altra religione o filosofia religiosa. Ogni religione comincia dicendo agli uomini quello che devo fare per salvarsi. Possono essere speculazioni intellettuali, esercizi ascetici, particolari opere ed atti…Il cristianesimo non comincia dicendo agli uomini quello che devono fare per salvarsi; comincia dicendo quello che Dio ha fatto per salvarli. Comincia con il dono, non con il dovere. Questo c’è, ma viene dopo, come conseguenza, non come causa della grazia.
Cosa fare per accogliere questo dono e farne per così dire una esperienza vissuta e non soltanto creduta? La prima e fondamentale risposta è la fede. Non una fede qualsiasi, ma la fede mediante la quale ci appropriamo di ciò che Cristo ha acquistato per noi. La fede che fa il colpo di audacia e che fa fare il colpo d’ala alla nostra vita cristiana. Paolo ha scritto: «Cristo Gesù […] per noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione, perché, come sta scritto, chi si vanta, si vanti nel Signore» (1 Cor 1, 30-31). Quello che Cristo è diventato «per noi» – giustizia, santità e redenzione – ci appartiene; è più nostro che se lo avessimo fatto noi! “Poiché noi non apparteniamo più a noi stessi, ma a Cristo che ci ha ricomprati a caro prezzo, ne consegue – scrive il grande maestro bizantino Cabasilas – che quello che è di Cristo ci appartiene, è più nostro di quello che viene da noi. Io non mi stanco di ripetere, a questo riguardo, ciò che ha scritto san Bernardo:
Io, in verità, prendo con fiducia per me [nell’originale, usurpo!] ciò che mi manca dalle viscere del Signore, perché esse traboccano di misericordia. […] Il mio merito, pertanto, è la misericordia del Signore. Non sarò sicuramente privo di merito fino a quando il Signore non sarà privo di misericordia. Se le misericordie del Signore sono molte, anch’io sono molto grande per quanto riguarda i meriti. […] Canterò forse anche la mia giustizia? «Signore, mi ricorderò solo della tua giustizia» (cf Sal 71, 16). Essa, in verità, è anche mia; perché tu ti sei fatto per me giustizia che viene da Dio (cf 1 Cor 1, 30) .
Non dobbiamo rassegnarci a morire prima di aver fatto, o rinnovato, questa specie di “colpo di mano” suggeritoci da san Bernardo. Questa santa sfrontatezza! San Paolo esorta spesso i cristiani a «spogliarsi dell’uomo vecchio» e «rivestirsi di Cristo» . L’immagine dello svestirsi e rivestirsi non indica una operazione soltanto ascetica, consistente nell’abbandonare certi «abiti» e sostituirli con altri, cioè nell’abbandonare i vizi e acquistare le virtù. È anzitutto un’operazione da fare mediante la fede. In un momento di preghiera, in questo tempo di Quaresima, uno si mette davanti al Crocifisso e, con un atto di fede, consegna a lui tutti i propri peccati, la propria miseria passata e presente, come chi si spoglia e getta nel fuoco i propri stracci sporchi; poi si riveste della giustizia che Cristo ha acquistato per lui. Dice, come il pubblicano nel tempio: «O Dio, abbi pietà di me peccatore!», e se ne torna a casa anche lui «giustificato» (cf Lc 18, 13-14). Oh, se potessimo una volta crederci davvero! Come cambierebbe la nostra vita spirituale e il nostro rapporto con Dio!
Alcuni Padri della Chiesa hanno racchiuso in una immagine questo grandioso segreto della vita cristiana. Immagina, dicono, che si sia svolta, nello stadio, un’epica lotta. Un valoroso ha affrontato il crudele tiranno che teneva schiava la città e, con immane fatica e sofferenza, lo ha vinto. Tu eri sugli spalti, non hai combattuto, non hai né faticato né riportato ferite. Ma se ammiri il valoroso, se ti rallegri con lui per la sua vittoria, se gli intrecci corone, se provochi e scuoti per lui l’assemblea, se ti inchini con gioia al trionfatore, gli baci il capo e gli stringi la destra; insomma, se tanto deliri per lui, da considerare come tua la sua vittoria, io ti dico che tu avrai certamente parte al premio del vincitore.
Ma c’è di più: supponi che il vincitore non abbia alcun bisogno per sé del premio che ha conquistato, ma desideri, più di ogni altra cosa, vedere onorato il suo fautore e consideri quale premio del suo combattimento l’incoronazione dell’amico, in tal caso quell’uomo non otterrà forse la corona, anche se non ha né faticato né riportato ferite? Certo che l’otterrà! Così, dicono questi Padri, avviene tra Cristo e noi. È lui il valoroso che sulla croce ha vinto il grande tiranno del mondo e ci ha ridato la vita . Da noi si richiede che non siamo «spettatori» distratti di tanto dolore e di tanto amore. Scrive san Giovanni Crisostomo:
Le nostre spade non sono insanguinate, non siamo stati nell’agone, non abbiamo riportato ferite, la battaglia non l’abbiamo neppure vista, ed ecco che otteniamo la vittoria. Sua è stata la lotta, nostra la corona. E poiché siamo stati anche noi a vincere, imitiamo quello che fanno i soldati in questi casi: con voci di gioia esaltiamo la vittoria, intoniamo inni di lode al Signore .
Naturalmente non tutto finisce qui. Dalla appropriazione dobbiamo passare alla imitazione. Il testo del Concilio che ci ha presentato la santità come dono (LG 40), prosegue dicendo:
Essi quindi devono, con l’aiuto di Dio, mantenere e perfezionare con la loro vita la santità che hanno ricevuto. Li ammonisce l’Apostolo che vivano ‘come si conviene a santi’ (Ef 5,3), si rivestano ‘come si conviene a eletti di Dio, santi e prediletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di dolcezza e di pazienza ‘ (Col 3,12) e portino i frutti dello Spirito per la loro santificazione (cfr. Gal 5,22; Rm 6,22).
Ma abbiamo tante altre occasioni per parlare e sentir parlare del dovere di imitare Cristo e coltivare le virtù, che, per una volta, è bene fermarci qui. Anche perché se non facciamo quel primo salto nella fede che ci apre alla grazia di Dio, non andremo mai molto lontano nel’imitazione. “Non si perviene dalle virtù alla fede –diceva san Gregorio Magno – ma dalla fede alle virtù” .
Se proprio non vogliamo terminare senza almeno un piccolo proposito pratico, eccone uno che ci può aiutare. La santità di Gesú è consistita nel fare sempre quello piaceva al Padre. “Io faccio sempre – diceva – le cose che gli sono gradite” (Gv 8, 29). Proviamo a domandarci più spesso che possiamo, cominciando da oggi, davanti a ogni decisione da prendere e ogni risposta da dare: “Quale è, nel caso presente, la cosa che piacerebbe a Gesú che io facessi?” e farla senza indugio. Sapere qual è la volontà di Gesú è più facile che sapere in astratto qual è “la volontà di Dio” (anche se le due cose di fatto coincidono). Per conoscere la volontà di Gesú non dobbiamo fare altro che pensare a ciò che egli dice nel Vangelo. Lo Spirito Santo è lì, pronto a ricordarcelo, come ci ha promesso Gesù.
1.Cf. Milan Machovec, Gesú per gli atei, Cittadella Editrice, Assisi 1973.
2.Denzinger – Schoenmetzer, Enchiridion Symbolorum, nr. 301-302.
3.N. Cabasilas, Vita in Cristo, IV, 6 (PG 150, 613).
4.Bernardo di Chiaravalle, Sermoni sul Cantico, 61, 4-5 (PL 183, 1072).
5.Cf Col 3, 9; Rm 13, 14; Gal 3, 27; Ef 4, 24.
6.Cf N. Cabasilas, Vita in Cristo, 5 (PG 150, 516 s.).
7.Giovanni Crisostomo, De coemeterio et de cruce (PG, 49, 396).
8.S. Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, II, 7 (PL 76, 1018).