Con la guida profonda e sensibile di don Pierangelo Sequeri, per dieci settimane siamo andati in cerca dei segnali che orientano la fede dentro la cultura di questo tempo nel quale vediamo prevalere fattori di incertezza che sembrano scoraggiare l’esperienza credente. Il celebre teologo, firma cara ai lettori di “Avvenire”, conclude oggi il suo percorso alla scoperta della «fede dove non te l’aspetti», attraverso parole-guida offerte a tutti i «cercatori e trovatori» che vogliono attraversare la vita con ritrovata consapevolezza.
Di certo, se esce con tutti i suoi paramenti addosso, non esce veramente: allarga la sua tenda familiare, invade un territorio alieno, presidia un avamposto di occupazione. Insomma, ristruttura il suo interno, magari per renderlo più spazioso e accogliente (cosa tutt’altro che censurabile, naturalmente), ma non esce realmente dalla sua autoreferenzialità. Di fatto, è una Chiesa in uscita che si risolve nell’invito a entrare in Chiesa (appello che non è certamente contestabile). E allora, che cosa manca a questa uscita? Mancano la libertà e la necessità di una missione che cerca – prima di tutto e in tutto, dovunque e in chiunque – i vicoli di ingresso nel regno di Dio (la “porta stretta”). La Chiesa in uscita rende disponibile la forma cristiana per coloro che intendono accogliere l’invito del Figlio (Matteo 28, 19); ma impara a riconoscere i segni della forza dello Spirito che fa nascere dovunque la nuova creatura (Romani 8, 22). E se ne rallegra, a qualsiasi tribù, lingua, popolo e nazione appartenga.
La Chiesa in uscita è quella che non impone l’ingresso nella forma cristiana ai miracolati dell’agape di Dio, che li afferra con la forza della sua guarigione, della sua consolazione, della sua speranza. I Vangeli dedicano la gran parte della loro memoria dell’evento che ha cambiato faccia alla militanza religiosa su questo pianeta, al racconto di questi miracolati, dei quali poi si perdono persino le tracce (cfr. Matteo 25, 31-40). Di questi cercatori e trovatori della fede dove non te l’aspetti ci siamo arricchiti o ci siamo impoveriti? Dedichiamo le nostre energie esclusivamente alla formazione dei quadri “ecclesiastici” (ora anche “laici”) e delle loro capacità di reclutamento, o siamo astuti e creativi formatori dei rabodomanti del Regno di Dio, che parlano disinvoltamente le lingue del posto senza fissarsi ad insegnare il latino, e ironizzano allegramente sullo spreco di intelligenza dedicato alla felicità dei consumi?
La priorità, nella logica attuale della missione, va riconosciuta nella generosa disseminazione di discepoli che siano all’altezza dei luoghi «dove si formano i nuovi racconti e paradigmi» (Evangelii gaudium, 74). Non si tratta del “coraggio” di predicare su uno sgabello in Hyde Park la notizia della Risurrezione di Gesù. Si tratta della determinazione di abitare, senza agitare rosari e sventolare bandiere, l’umano che è comune: con speciale amore per gli “scartati” dall’accumulazione del sapere, del potere, delle ricchezze della Terra, che è di Dio prima che di chiunque altro. Dopo l’esilio dal suo insediamento come Regno mondano, l’istituzione della fede del popolo di Dio scoprì il dono inestimabile della Sapienza di Dio, che insegna l’alleanza di Dio con la creatura e il creato (Giobbe e il Cantico, Sapienza e Qohelet). Questa alleanza non ha bisogno di una legalità teocratica che la imponga: i pastori non sono sovrani e i fedeli non sono sudditi.
I discepoli del Signore, ai quali è ora affidata la dispersione secolare delle moltitudini senza forma e senza forza, non dovrebbero portare la genuina vitalità di questa fede sapienziale nello spazio dell’umano che è comune? Lo spazio del suo sapere e della sua operosità, lo spazio dell’estetica e della drammatica dei suoi affetti? La rivelazione della Sapienza di Dio lo fece. E il Vangelo sigillò per sempre questo legame, dalla parte di Dio stesso.
Le élites che generano beni importanti per la comunità e le moltitudini che partoriscono affetti imperdibili per l’umano sono i luoghi privilegiati per questa semina. La divaricazione fra i due (economica, politica, etica) ora cresce esponenzialmente. E indecentemente. (L’Europa brilla, e affonda, per l’esemplarità della sua inerzia nell’affrontare – antropologicamente e culturalmente – questo trend negativo della diseguaglianza economica e della sfiducia politica. L’inerzia della sua ostinazione a trattarlo in termini meramente economicistici, avvolti dai fumi di una retorica politica senza visione umana e spirituale all’altezza, è sconfortante. E il ceto intellettuale che la fiancheggia, d’altra parte, è ancora troppo frequentemente al di sotto della moralità e dell’autorevolezza necessarie per farsene carico). La riconquista di un costume sociale di alleanza fra gli “opposti” – le università e le periferie, le stanze dei bottoni e le vite senza potere, i luoghi dell’alta formazione (e della selezione) e le scuole della strada (e dei social) – è una priorità assoluta.
Il “terzo settore” è già un miracolo: onore ai volontari, naturalmente, “senza se e senza ma”. Però non basta più raccogliere la spazzatura della smart city e tappare i buchi della global economy. È nel “primo” e nel “quarto” settore che bisogna infilarsi: quello che manda avanti l’algoritmo e quello a cui imbrogliano le carte. Per il governo della comunità di fede – la Chiesa ad intra – non servono moltitudini di chiamati. (Gesù se ne fece bastare una dozzina). La cura della comunità stanziale e ospitale della fede è degna della massima gratitudine: essa custodisce i nostri tesori più preziosi e offre una base sicura – la casa confortevole – per l’enorme lavoro che va compiuto soprattutto ad extra. Ma non giustifica mezzi spropositati.
Le performances sinodali (l’assemblea, il discernimento) saranno “nodi” di rete; ma la “rete” stessa sarà la tessitura fraterna dell’alleanza multifocale di questa chiesa ad extra (chiamala pure comunione). Il centro vitale della comunità dei discepoli – nodo e rete – è l’Eucaristia della presenza del Signore, e poco altro di essenziale (non certo la disputa infinita su chi è il più degno di sedere alla sua destra e alla sua sinistra).
La fede mette anzitutto in gioco – nel suo dialogo con l’umanesimo dell’altro uomo – il suo orizzonte di destinazione dell’umano al mondo di Dio. La risurrezione della «vita nel mondo che verrà», dice il Credo. Ci agitimo così tanto per finire in qualche buco nero del cosmo, o aspettiamo con dignitosa fermezza che le bellezze e i sospesi della vita siano riscattati da una giustizia di Dio per noi inarrivabile? Pensate che ce la possiamo fare ad adottare questo cambio di passo? Possiamo essere abbastanza generosi da non reinvestire tutto su di noi – ad intra – il patrimonio di vocazioni e di dedizioni che lo Spirito suscita fra i credenti che hanno conosciuto il Signore?
O forse, stiamo pensando anche noi secondo la prospettiva mondana di quel patetico dogma liberistico del trickle-down secondo il quale l’accumulo di ricchezza della élite possidente accresce automaticamente il potenziale drop-falls della sua redistribuzione alla moltitudine dei meno abbienti? La Chiesa è per l’uomo, non l’uomo per la Chiesa. La bellezza di questa conversione – che ripete puramente e semplicemente la disposizione di Dio – deve metterci di buon umore, non in allarme.
Infine, se mancassimo l’appuntamento di questa fraterna conversione ad extra proprio noi, comunità cristiane dell’Europa post-coloniale e post-teocratica, che cosa potranno mai ricevere di buono da noi le comunità critiane del mondo, alle prese con la globalizzazione di un umanesimo senza fede e con i risentimenti di una religione senza umanesimo?