Qualcosa balugina, in mezzo alle molteplici attività, alle incombenze, agli appuntamenti quotidiani. Qualcosa che sembra sufficiente per prendere la decisione di iscrivere i propri figli al cammino di iniziazione cristiana. Anche se il ritornello della società senza valori risuona, non sono pochi i bambini che varcano la soglia di oratori e di centri parrocchiali per un percorso di catechesi. Però la trasmissione della fede è altro; non si può ridurre a un incontro settimanale o quindicinale, ma è un cammino di vita, di comunità che ha, o dovrebbe avere, nella famiglia il motore principale, la culla. La famiglia dovrebbe trasmettere un qualcosa di prezioso, un bene per la vita, alleandosi con chi, nella comunità cristiana, per vocazione e per mandato, ricopre un ruolo educativo particolare.
Qui si apre un quaderno di doglianze, un elenco di delusioni e di fallimenti che molti catechisti potrebbero aggiornare. Però i bambini sono preziosi e stupiscono sempre, le mamme e i papà, a singhiozzo e mai nella auspicata totalità, partecipano a incontri formativi e a celebrazioni. E qui si apre invece un capitolo di gratitudini e di soddisfazioni che educatori e catechisti conoscono e custodiscono.
“La trasmissione della fede non può avvenire senza la famiglia – afferma don Matteo Dal Santo, responsabile del Servizio per la catechesi della diocesi di Milano -, in positivo e in negativo. Avviene con il registro degli affetti. Perché si iscrivono i bambini? Spesso le motivazioni sono legate a tradizioni, oppure perché sono i bambini stessi che chiedono di iniziare il cammino. Il ruolo del ragazzo è molto importante, con i vantaggi e gli svantaggi che comporta, perché i genitori non sanno scegliere e per molti la catechesi diventa un impegno in più. Nella città di Milano contiamo famiglie che non iscrivono più i bambini per mancanza di tempo… non ci sta in agenda. Le famiglie oggi sono molto esposte e pressate da ogni parte. È una vita complicata. Avanza inoltre un’idea del “pieno”, non solo nella scuola, ma anche fuori e ciò è un ostacolo, perché la fede ha bisogno anche dei vuoti e della capacità di dare priorità. La catechesi può essere un impegno in più oppure una nuova alleanza educativa. Questo è il cuore della questione e nella nostra diocesi il coinvolgimento delle famiglie è una priorità”.
Dinnanzi alla realtà odierna molteplici sono le riflessioni che si avviano così come alcuni ripensamenti sui cammini di iniziazione cristiana che probabilmente hanno cristallizzato l’abitudine che vede strettamente legato un percorso scolastico scandito per età e per tappe, all’itinerario di catechesi che porta all’accesso ai sacramenti. Non rendendo di conseguenza consapevoli gli adulti che è fondamentale essere in un cammino di fede e di comunità. Sono sfide che evidenziano un’urgenza di evangelizzazione che riesca a fornire alle persone di oggi un senso al proprio vivere.
“Una delle radici della situazione attuale è la complessità della quotidianità – afferma la teologa -. Il problema della trasmissione della fede non riguarda strettamente i genitori, è un problema che riguarda la forma con la quale si è consolidato il nostro essere comunità cristiana. Papa Francesco parla del predominio della sacramentalizzazione della fede, senza altre forme di evangelizzazione. Cioè, abbiamo ricondotto tutto all’aspetto sacramentale, dando per scontato che il resto di ciò che concerne la trasmissione della fede fosse automatico, com’era decenni fa. La vita cristiana si respirava, era parte della quotidianità. Oggi non è così. Si pensi al Natale, oggi svuotato della sua radice. È un Natale senza il Bambino. È uno svuotamento di coordinate che noi, purtroppo, non comprendiamo. Le famiglie si trovano svuotate di significato da dare a parole che sentono preziose. Altrimenti non porterebbero i bambini a catechismo. Perché per loro è una fatica portare i bimbi al catechismo. Questi genitori arrivano con una sensazione generica di una cosa buona, che ha un buon esito a livello etico, ma pensano anche che una volta compiuta l’iniziazione cristiana, tutto finisca lì”.
La teologa evidenzia un altro aspetto: “A mio avviso un altro lavoro da fare concerne le categorie concettuali. Abbiamo la necessità di uscire da un linguaggio che potrei definire “ecclesialese”, che dà per scontato che le persone a cui ci rivolgiamo sappiano e capiscano ciò di cui parliamo. È necessaria un’alfabetizzazione primaria per l’adulto e per i bambini”. Le comunità si debbono porre in un atteggiamento nuovo, che accoglie le provocazioni di una società sempre più digiuna di una cultura cristiana, sempre più convulsa. Nella consapevolezza che un punto resta fisso: senza una continuità tra ciò che i più piccoli ascoltano e vivono negli oratori e nelle parrocchie, e ciò che sentono e vedono in famiglia, il percorso si fa arduo: “Anche se noi facciamo alfabetizzazione primaria con i bambini – aggiunge Steccanella – se non c’è nessuna risonanza in famiglia, tutto cade nel vuoto”.
Le comunità cristiane hanno conseguentemente un grande compito: dare una motivazione alle mamme e ai papà. Far comprendere che c’è una bontà nel percorso che va a rendere migliore, a dare un senso alla loro esistenza quotidiana. “È bene per mio figlio, è bene per me – conclude Assunta Steccanella -. Ciò deve passare, altrimenti non sceglieranno quello che noi proponiamo. Non si tratta solamente di linguaggi, perché le persone debbono trovare nelle comunità cristiane un luogo di sollievo per la loro umanità”.