Carlo Verdone: «Facevo il chierichetto, mi dava pace. Poi invecchi, ed esplode ‘sta bomba della fede…»

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L’attore parla del rapporto con Dio, del ricordo dei Giubilei passati e delle aspettative per l’anno che verrà.«Fare il chierichetto mi dava un senso di pace, poi invecchi e con la paura della morte esplode ‘sta bomba della fede»

La prima sorpresa con Carlo Verdone arriva subito, quando gli chiedo cosa rappresenta il Giubileo per un uomo laico. E lui: «Ci conosciamo da quarant’anni, ma guarda che non sono mica tanto laico…».

Vai a Messa?
«Qualche volta sì. I miei genitori ci andavano regolarmente e non sbandieravano la fede, questa era la loro lezione. Mamma una volta al mese mi portava al Verano, cambiava l’acqua ai parenti defunti, conosceva le vite di tutte le tombe antiche, dietro ogni loculo aveva una storia da raccontare. Il cimitero non l’ho mai visto come un luogo triste. Io poi da piccolo ero chierichetto e mi piaceva pure, tutti quei rituali mi davano un senso di pace».

                                             La fede aumenta con l’età?

«Quando cominci a essere bello maturo e senti i primi acciacchi, qualche amico l’hai perso o ha qualche malanno, ecco, piano piano ‘sta bomba della fede esplode, la senti sempre più vicina. Cominci ad avere paura e ti interroghi sul senso della vita: cosa succede dopo? Anche il non credente viene spinto verso riflessioni spirituali e prima o poi in chiesa ci entri».

Dunque si finisce a credere per paura di morire…

«Sì, cominci a dialogare, cosa che non facevi prima. Se hai la forza di iniziare una preghiera, ce ne sarà una seconda e poi una terza. La paura della morte è terribile. Ti chiedi: ma io sono nato e ho vissuto per quale motivo? Sì, hai creato degli eredi, ma perché è avvenuto tutto questo? E’ la paura dell’andare via e il non sapere cosa succede. Il vero credente invece è dogmatico, per lui la vita continua attraverso l’anima».

Cosa ricordi degli altri Giubilei?
«Di quello del 2000 ricordo uno dei miei pranzi con mio padre, Mario, grande studioso di cinema. Con lui si parlava sempre di arte e poesia, mai di religione. Quel giorno mi disse che voleva andare a San Pietro per confessarsi, però non sapeva cosa dire al prete. Non trovava dei veri peccati. Raccontagli le piccole cose, gli suggerii. Ma sono talmente piccole, rispose. Non l’ho mai sentito parlare male di qualcuno, tutt’al più dava del trombone. Allora gli dissi, al sacerdote potresti raccontare quando, nel 1964, mi prendesti a sberle perché ti avevo disobbedito andando in motorino e mi ero rotto tibia e perone, soffrivo con la gamba gonfia come un melone e mi hai caricato di botte».

E lui cosa ti disse?
«Disse ma mi parli di un episodio di quasi 40 anni fa! Aggiunse che, sbagliando, aveva imitato cosa aveva fatto sua madre con lui, quando cadde dalla bici. Il bello è che il prete gli diede ragione, disse che era stato mosso dalla preoccupazione del genitore e che a volte i figli vanno educati col bastone».

Andiamo a questo Giubileo. Roma è sottosopra per i cantieri.
«Ho avuto una piccola polemica col sindaco Gualtieri, poi mi ha detto che si riuscirà a chiudere tutto. Effettivamente gli eventi a Roma si finiscono sempre in zona Cesarini. Sono convinto che ci saranno miglioramenti. Ma certo Piazza Venezia è infrequentabile. Quello che mi preoccupa è che Roma non riesce a reggere una mole di turismo enorme. C’è chi dice 35 milioni di pellegrini in arrivo, chi addirittura 40… Sarà una bella cosa per hotel e ristoranti. Roma sta sempre meno diventando una città che si guarda per la bellezza, e sempre più per l’Apericena. È diventata una città culinaria».

Ti tapperai in casa?
«Io ho ancora la forza di andare con lo scooter. Mi muovo con fatica anche su due ruote. Il problema sono i bus turistici e le auto in doppia fila. Le strade in centro sono strette e i turisti ti guardano male pensando che siano tutte pedonali».

Mai tentato di andare via?
«Ogni tanto lo penso, in realtà non ce la faccio. È una città che amo troppo, anche se ha perso molto della poesia di quartiere. I fabbri, i vetrai e gli altri artigiani non ci sono più, è tutto un gelato, un supplì, una pizza al taglio. È tutta ‘na cosa da magna’. E la massa se ne sta col sacchetto di cibo in mano. Altra cosa il turismo ricco. Il liceo che ho frequentato, il Nazareno, diventerà un hotel a sei stelle».

Il tema del Giubileo è la speranza.
«Ha ragione Massimo Recalcati, la speranza non deve diventare l’illusione dell’utopia, di un mondo ideale, ma si fonda su quello che noi abbiamo già. Dobbiamo sperare in un approccio a una dimensione spirituale che abbiamo completamente perso. L’estetica è una cosa, l’anima un’altra».

Pasolini diceva che il nemico del Cristianesimo in Occidente è l’idolatria consumistica, i nuovi dei.
«Alla fine Pasolini diceva cose più spirituali di tanti sacerdoti, direi francescane, anche se era pieno di contraddizioni dalla testa ai piedi».

Roberto D’Agostino ha girato il bel documentario Roma santa e dannata.
«Ha detto il giusto. È dannata perché immorale; santa perché basta guardare la magnificenza di certe chiese piene di ori che sembrano una scena pagana. Sono una Pinacoteca, entri e vedi un Guercino, i Carracci… Io preferisco le chiese romaniche, spoglie, primitive, adesso sono in campagna a Cantalupo in Sabina e davanti a me c’è il santuario di Vescovìo. Nella chiesa povera Dio lo sento di più».

Papa Francesco è infallibile?
«Tu ne hai conosciuto uno infallibile? Il senso delle parole del Vangelo lo ritrovavo in Giovanni XXIII che entrava nel cuore di tutti. Oggi ci sono le palestre piene e le chiese vuote. Ho letto che i cattolici praticanti non arrivano al 20 per cento e i matrimoni civili sono al 60. Poi c’è la crisi economica (la vocazione e le offerte diminuiscono), per non parlare dei tentativi di scisma. Il Papa fa quello che può. Ma il Giubileo, in mezzo a tante guerre, è una straordinaria occasione di aggregazione di tante persone da tutto il mondo che si ritrovano per un buon fine».

Scrive il Belli: «Er papa non è cojone, se ci ha messo il Giubileo ci avrà avuto la sua ragione».
«C’è anche un aspetto economico dietro questo evento, che poi è la ragione della frattura tra cattolici e protestanti».

Tuo fratello Luca, regista, vive in via del Pellegrino.
Sorride: «Tutto torna. Credo nella famiglia, ci vogliamo bene».

Nel tuo primo film, Un sacco bello, girato nel 1980, c’è un prete.
«È uno dei sei personaggi che interpreto. Ho preso spunto da un prete del Nazareno. Ho sempre cercato di cogliere il senso spirituale che sa di catechismo, senza tanta profondità. Magari venivano dalla Calabria, rappresentavo il cliché di parroci che non c’è quasi più, oggi hanno accenti francesi, tedeschi…. Il prete l’ho rifatto in Io loro e Lara, un personaggio che perde la fede in Africa, vuol tornare in Occidente ma trova una realtà familiare disastrata e ritorna in Africa, perché di aiuto c’è più bisogno lì».

Cosa pensi di Habemus papam di Nanni Moretti?
«È un autore serio, appassionato. Certe volte lo sento lontano da me, e quello non è tra i suoi film che preferisco».

Tuo padre fece quella piccola confessione. Tu, cosa puoi dirci?
«Mi rivedo in lui, grandi cose di cui vergognarmi non ne ho. Forse lavoro troppo e posso dimenticarmi dei vecchi amici, dovrei trovare il tempo di vederli. Di questo, sì, mi pento».