Un ricordo del grande teologo scomparso a 94 anni, instancabile scrittore, animatore di centinaia di conferenze, ritiri ed esercizi, grande amico e collaboratore della Famiglia Paolina, membro dell’Istituto Gesù Sacerdote, da parte del suo ammiratore e amico don Pino Lorizio
Da giovane marmotta della teologia ad inizio anni ’70 del secolo scorso mi sono imbattuto nel libro di Carlo Molari, La fede e il suo linguaggio (Cittadella, Assisi 1972), che, insieme alla introduzione e alle voci da lui redatte per il Dizionario teologico (ivi 1974), ha dato inizio alla dolorosa vicenda conclusasi con il prepensionamento e l’abbandono dell’insegnamento di una delle menti più vivaci della teologia italiana del secolo scorso. Sabato ho appreso la notizia della sua dipartita da questo esilio terreno, all’età di 93 anni nella sua diocesi di appartenenza: Cesena.
Durante il mio soggiorno romano nella parrocchia di San Luca Evangelista al Prenestino, a partire dal 1978, ho avuto modo di incontrare e conoscere personalmente don Carlo, che era molto amico e compagno di scalate del parroco don Alessandro Agostini, il quale lo invitava spesso a tenere conferenze ai catechisti e ai laici. Momenti ai quali partecipavo con attenta passione, non riuscendo a capire le motivazioni della diffidenza delle autorità ecclesiastiche nei confronti della sua teologia, che, anche se dal mio punto di vista poteva presentare aspetti discutibili e problematici (mi riferisco al suo entusiasmo per l’evoluzionismo e le teorie di Teilhard de Chardin), certamente non era tale da ritenersi riprovevole. Tanto più che eravamo nel post-concilio, mentre avrei forse meglio compreso tali atteggiamenti censori se si fossero espressi prima dell’evento conciliare. Allora, come oggi, continuo a ritenere pretestuose e infondate le accuse che gli sono state rivolte di incompatibilità di alcune sue tesi con la dottrina cattolica. Il che mi conduce alla convinzione circa quanto sia stata, e forse sia ancora dura a morire, la mentalità di quella che Molari chiamava la “neoscolastica romana”.
Ma ciò che maggiormente mi ha colpito, allorché ho incontrato don Carlo nei convegni dell’Associazione Teologica Italiana, di cui è stato segretario dal 1972 al 1981, era la sua serenità quasi gioiosa nel riferire queste pur tristi vicende: «ci siamo lasciati senza alcun rancore!», amava ripetere. Dalla sua esperienza viene altresì confermata una convinzione che da tempo vado esprimendo: il luogo della teologia non è soltanto (e direi soprattutto) l’università, ma sta nella chiesa e nella città. Infatti, don Carlo ha continuato il suo lavoro teologico in forme diverse da quella dell’insegnamento accademico, formando, attraverso conferenze, esercizi spirituali, presenza nell’ATI ecc. generazioni di credenti pensanti, soprattutto laici, ma anche religiosi e presbiteri. E chi ha perso è stata proprio l’Università.
Mi piace segnalare che nel suo ultimo libro Il cammino spirituale del cristiano. La sequela di Cristo nel nuovo orizzonte planetario (Gabrielli ed., Cengia – VR 2020) troviamo incastonata una convinzione, pronunziata da papa Francesco al convegno della Chiesa Italiana a Firenze nel 2015 e che l’attuale vescovo di Roma propone in più occasioni: «La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: la dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo». Don Carlo ha sperimentato il “volto rigido” del sistema dottrinale, che tuttavia non è riuscito a tacitare le istanze più profonde e autentiche del suo teologare. Arrivederci, fratello!