La sera del 28 agosto il cardinale arcivescovo di Bologna ha aperto la Porta Santa nella basilica di Collemaggio a L’Aquila, per la tradizionale Perdonanza celestiniana istituita nel 1294 da Papa Celestino v. Subito dopo ha presieduto una concelebrazione eucaristica. Pubblichiamo stralci della sua omelia.
San Celestino era un uomo austero, senza compromessi, che indicò il cambiamento alla Chiesa e al mondo, in un tempo difficile, proponendo il solo Vangelo, l’umiltà, la preghiera, il docile servizio agli altri. Sì, così si riforma la Chiesa e si cambia il mondo. Ci ha donato la perdonanza per liberare il nostro cuore dal male che lo rende lupo degli altri uomini e di noi stessi e aiutandoci a sentire il paradiso del perdono.
Questo anno si presenta particolare sia per le presenze necessariamente limitate sia perché siamo confrontati tutti con il male e capiamo con maggiore chiarezza l’importanza del perdono. Il male è sempre una pandemia: colpisce tutti e ognuno, si trasmette, ci rende contagiosi, ci fa credere di non stare sulla stessa barca e ci illude che pensando a noi stessi troviamo sicurezza dalla paura. La misericordia spezza questa catena, è il vaccino che ci affranca dal male e dalle sue conseguenze, che durano tanto a lungo. Chiediamo perdono per perdonare e disintossicare il nostro mondo, che non sa perdonare, dall’odio e dalla divisione. Non veniamo qui perché costretti dalla punizione di un Dio castigatore ma perché di fronte all’epifania del male capiamo le nostre complicità e avvertiamo la necessità di cambiare. Abbiamo bisogno di futuro. Noi non dobbiamo avere paura di chiamare il peccato peccato e non sbaglio. Non siamo più comprensivi giustificandolo o minimizzandolo, come se parlare di peccato equivalga a una condanna o a un giudizio troppo severo o definitivo. Capiamo la misericordia se capiamo il peccato, la sua forza distruttiva e divisiva, come il figliolo che era «rientrato in sé» e torna a casa sapendo che andava trattato come uno dei suoi servi. Trova, invece, l’inaspettata misericordia del Padre che avrà sorpreso anche a lui oltre che il “giusto” fratello maggiore, che giudica ma non ama. Non difendiamoci da chi ci ama. Il Signore non condanna i peccatori ma il peccato.
In questo anno così particolare il Papa ha indicato alcuni motivi per chiedere perdono nell’omelia pronunciata in una Piazza San Pietro vuota, nel pieno della pandemia. Abbiamo creduto di vivere sani in un mondo malato e quindi siamo stati indifferenti verso la sofferenza altrui. Abbiamo sciupato con presunzione tante opportunità; ci siamo creduti a posto con stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego”, sempre preoccupati della propria immagine. Se siamo davvero sulla stessa barca come essere indifferenti? Il peccato è sempre la rottura della fraternità, il banale pensare a sé, l’egoismo “sdrucciolo” e quello che diventa sistema di vita e di interessi personali e di gruppo. Non possiamo vivere isolati e il perdono ci aiuta a ricostruire la relazione per scoprire il nostro prossimo e che noi siamo prossimi di qualcuno. Il perdono ci restituisce a noi stessi perché ci ridona quello per cui siamo stati creati: amare. Sempre Papa Francesco ci ricordava come siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto, diventando avidi di guadagno tanto che «ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta». «Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami; non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie; non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato». Anzi lo abbiamo azzittito, come se il problema fosse loro.
E questo è successo davanti ai tanti virus che colpiscono la nostra generazione, le pandemie della povertà, della fame, della guerra che producono frutti di morte. Non a caso Papa Francesco parlava di una guerra mondiale a pezzi. Il perdono ci rende nuovi per guardare al futuro con speranza e ci dona la passione e la leggerezza per metterci a farlo. Se vogliamo vivere dobbiamo cambiare, a iniziare da ognuno di noi. Se cambio io, cambia il mondo. Non rimandiamo, non aspettiamo siano gli altri: inizio io. E un uomo solo, quanto è vero, può compiere le cose grandi degli umili, cioè degli uomini veri. Non c’è tempo da perdere e perderlo è davvero un peccato, come tutto ciò che divide, non ama e sciupa le opportunità e l’amore stesso, rendendolo mediocre o senza sapore. Ne sapete qualcosa voi colpiti da quel terribile terremoto, le cui ferite ci portiamo nel cuore, monito a non arrendersi per non essere mai complici del male. E L’Aquila non si arrende, non si è arresa e guarda con fierezza al futuro. Che sia sempre aiutata a costruirlo.
La nostra ferita si rimargina quando ci occupiamo delle ferite del prossimo, di chi abbiamo vicino, come suggerisce il profeta Isaia. Solo così il nostro io sta bene. Ecco come guardare al futuro dopo le macerie della pandemia. Se vogliamo guarire questo mondo dobbiamo modificare i nostri stili, difendere la vita sempre e con tutto noi stessi. Molti si chiedono dopo la pandemia: saremo diversi o torneremo quelli di prima? Dipende da noi. È la nostra scelta e responsabilità. Non perdiamo una sfida così importante per cambiare noi e rendere migliore il mondo, pensando soprattutto a chi viene dopo.
di Matteo Maria Zuppi