Si dice sicuro dell’attualità come della carica profetica e programmatica che ha ancora dentro di sé il Vaticano II ed è convinto soprattutto che la «carezza del papa Giovanni XXIII» del famoso “discorso della luna” pronunciato a braccio da papa Roncalli dalla finestra del Palazzo Apostolico – era l’11 ottobre di 60 anni fa – guida ancora la Chiesa.
È il bilancio che si sente di tracciare l’arcivescovo di Chieti-Vasto, teologo autore di molte opere, Bruno Forte, classe 1949, su questo importante anniversario per la Chiesa universale a 60 anni dall’apertura del Concilio Vaticano II (1962-2022) a Roma.
«Ero un ragazzo di tredici anni – ricorda l’arcivescovo di origini napoletane – quando la sera dell’11 ottobre 1962 come tanti vidi per televisione il “Papa buono” affacciarsi alla finestra del Palazzo Apostolico. Giovanni XXIII disse poche parole: mi colpì il fatto che inviasse una carezza a tutti i bambini della terra. Quel semplice gesto suscitò anche in me una sorta di tenerezza commossa, che a quel tempo certamente non avrei saputo definire così. Il Papa volle coinvolgere persino la luna, che lui stesso non esitò a chiamare in gioco come testimone dell’ora straordinaria che la Chiesa stava vivendo: grazie al Concilio Vaticano II, inaugurato quel giorno, la storia della Chiesa e quella dell’umanità intera si sarebbero avvicinate e intrecciate in modo nuovo e profondo. Allora percepii solo la vicinanza del Papa al mio cuore di ragazzo, ma col tempo avrei capito come quelle parole inauguravano una primavera della Chiesa, attenta in modo nuovo e con grande fiducia alle sfide del tempo e alle speranze degli uomini: quest’attenzione, ricca di frutti e di sfide, mi sembra il primo grande messaggio lanciato dal Concilio ai credenti e alle donne e agli uomini di buona volontà».
Il teologo domenicano francese Yves Marie Congar diceva che per recepire gli insegnamenti del Concilio erano necessari 50 anni. Ora che abbiamo raggiunto lo storico traguardo dei 60 anni, a suo giudizio, in che cosa quell’evento è ancora incompiuto?
Il Concilio ha proposto una Chiesa che sceglieva di camminare a fianco delle donne e degli uomini protagonisti ogni giorno del loro domani, fedele alle loro gioie e alle loro attese, compagna dei loro dolori e delle loro prove, testimone di una speranza più grande di ogni stanchezza e disillusione. Si trattava, certo, di una sfida, che avrebbe tuttavia segnato in profondità il cammino dei credenti e non solo di essi, passando attraverso processi coraggiosi e non facili: dalla liturgia nella lingua di ogni giorno, all’entusiasmo nuovo per la Parola di Dio, allo stimolo al popolo dei credenti ad andare incontro al mondo e a vivere una nuova sensibilità per la causa dell’unità dei cristiani. Dopo sessant’anni tanto di queste rivoluzioni è passato nella vita del popolo di Dio, anche se molto resta ancora da fare, come dimostrano le Assemblee del Sinodo dei vescovi, convocate periodicamente proprio per “aggiornare” la profezia conciliare ai tempi che cambiano.
Dal 2004 lei è alla guida della Chiesa particolare di Chieti-Vasto. Un suo predecessore come arcivescovo di Chieti dal 1967 al 1971 è stato il futuro cardinale e storico segretario di Giovanni XXIII, Loris Francesco Capovilla. A suo giudizio tornando a quell’11 ottobre del 1962 e al profetico discorso di papa Roncalli Gaudet Mater Ecclesia quanto di quell’impronta giovannea può essere ancora attuale per la vita dei credenti di oggi?
Il cardinale Capovilla, con cui ho avuto un rapporto meraviglioso di intenso e continuo dialogo, insisteva su un punto: il Concilio è stato un inizio, non una fine! Lo diceva in latino: Tantum aurora est! – è solo l’aurora! Come in ogni aurora luci e ombre si sono mescolate: al tempo del “rinnovamento”, legato alla primavera conciliare, ha fatto seguito non di rado una condizione di “spiazzamento”, frutto della nuova consapevolezza del pluralismo delle culture, delle urgenze storico-politiche, dei bisogni e delle espressioni spirituali e religiose. Da teologo e da pastore ho potuto seguire il profilarsi di nuovi luoghi geografici di elaborazione del pensiero della fede (America Latina, Africa, Asia) accanto al monopolio europeo tradizionale, di nuovi protagonismi (in primo luogo quello dei laici e delle donne), di nuovi metodi, in rapporto specialmente all’emergere della rilevanza della prassi per il pensiero della fede. Quello che il “discorso della luna” aveva aperto nella storia è stato insomma un processo irreversibile, dalle dimensioni vastissime e profonde, tali da spaventare i paurosi di fronte alle novità. Il processo continua e papa Francesco spinge la Chiesa a viverlo con fiducia, senza alibi e senza paura.
Che ricordi conserva oggi di quell’evento e se anche per lei come per il suo amico il cardinale Carlo Maria Martini il Vaticano II ha veramente rappresentato un nuovo inizio per la Chiesa, quasi uno spartiacque tra un prima e un dopo. Qual è il suo giudizio a riguardo?
Il Vaticano II ha saputo offrire profonde ragioni di speranza e di fiducia: ricordando come la tensione al futuro ultimo sia dimensione costitutiva e qualificante di tutta l’esistenza del popolo di Dio pellegrino nel tempo, il Concilio ha fatto riscoprire quanto l’avvenire della promessa del Signore tocchi la Chiesa in tutte le sue fibre. Anche per questo la recezione del Concilio – ben lungi dall’essere compiuta – ha investito non solo il compito di permanente “aggiornamento” e di continua riforma della comunità ecclesiale, ma anche lo slancio missionario di tutto il popolo di Dio e l’apertura ecumenica. La barca di Pietro non potrà non andare avanti con decisione verso gli orizzonti aperti dal Vaticano II: «Desideriamo insistere – aveva detto Giovanni Paolo II all’inizio del Suo pontificato – sulla permanente importanza del Concilio Vaticano II, e ciò è per noi un formale impegno di dare ad esso la dovuta esecuzione». Lo ha riaffermato Benedetto XVI riconoscendo nel Concilio «la bussola del cammino» da seguire. Ce lo ricorda papa Francesco col soffio di Vangelo che sta portando in tutto ciò che fa e dice. Alla scuola del Vaticano II il cardinale Martini diceva del vescovo, parlando in realtà di sé, che è «un servitore della Parola di Dio. Durante la consacrazione gli viene messo sul capo il libro dei Vangeli. Questo è un segno molto bello: significa che egli deve avere il Vangelo dentro sé stesso e quindi essere un Vangelo vivente… La sua parola deve fare risuonare il Vangelo e ogni gesto deve essere una realizzazione del Vangelo» (Il Vescovo, Torino 2011, 38). La carezza di Giovanni XXIII continua, insomma, a guidare la Chiesa del Concilio verso le sorprese inesauribili di Dio, aperta ai tempi nuovi, amica degli uomini e fiduciosa nella fedeltà del Suo Signore.