Un’Europa anti-capitalista che generò lo “spirito” del capitalismo, è uno dei fenomeni più misteriosi e complessi della storia. L’economia europea a “doppio binario” (laico e religioso) aveva maturato, nei monasteri e nelle città, una visione critica della ricerca della ricchezza materiale. Sebbene per ragioni diverse, dentro e fuori i monasteri e i conventi la ricerca di profitti e guadagni non era né lodata né incoraggiata.
I religiosi e le religiose facevano voto di povertà, nelle città commerciali l’avarizia era considerata uno dei principali vizi capitali. L’Inferno di Dante abbonda di avari, sottomessi alla tremenda custodia di Pluto, divinità pagana con sembianze di lupo (canto VII). Nel Medioevo l’avarizia, cioè trasformare la ricchezza da mezzo a fine, era infatti vizio privato e pubblico, perché conduceva alla perdizione morale della singola persona e delle comunità. Come tutti i vizi capitali, dalla loro pratica non poteva venire nulla di buono – abbiamo dovuto aspettare la modernità per iniziare a pensare che dai “vizi privati” potessero derivare “pubbliche d virtù”. Come mai l’etica dell’avarizia-lupa partorì un giorno l’etica capitalistica? Torna qui la metafora del capitalismo-cuculo da cui siamo partiti cinque domeniche fa.
Il dubbio che di cristiano lo spirito del capitalismo avesse molto poco, era anche quello dello storico Amintore Fanfani, che, criticando Max Weber individuava lo spirito del capitalismo già nei mercanti italiani del Trecento e Quattrocento: «Se il cattolicesimo ha combattuto allora e sempre lo spirito capitalistico, come questo si è manifestato in età cattolica?» (Fanfani, 1934). Per Fanfani l’emergere del capitalismo fu infatti un’anomalia, un fenomeno eccezionale dovuto a circostanze altrettanto eccezionali (per esempio, lo sviluppo di una classe di mercanti internazionali), che consentirono che la ricerca e l’accumulo del denaro, condannato dall’etica medioevale, potesse un giorno diventare lecito e socialmente lodato. Per Fanfani quei mercanti italiani svilupparono uno “spirito” non diverso da quello degli imprenditori e banchieri olandesi e americani calvinisti del Settecento descritti da Weber.
In realtà, a Fanfani sfugge che il centro del racconto di Weber era proprio la dimostrazione del perché i business calvinisti fossero molto diversi dai mercanti italiani, una diversità racchiusa tutta nella parola spirito del capitalismo: «La sete di lucro, l’aspirazione a guadagnare più denaro possibile, non ha di per sé nulla in comune con il capitalismo. Quest’aspirazione si ritrova presso camerieri, medici, artisti, soldati, banditi, in tutte le epoche di tutti i paesi della terra» (Weber, 1905). Lo spirito del capitalismo per Weber è quindi qualcosa di inedito nella storia dell’umanità, in quanto figlio dell’etica protestante, in particolare calvinista (e delle varie tradizioni influenzate dal calvinismo: pietisti, puritani, battisti, metodisti, persino quaccheri).
Anche per Weber, quindi, lo spirito del capitalismo non sarebbe un parassita del cristianesimo (come dirà pochi anni dopo Walter Benjamin), ma avrebbe una natura cristiana, sebbene il “figlio” legittimo crescerà con caratteristiche impreviste e non volute dai suoi “genitori” (Lutero e Calvino e gli altri riformatori).
Dove si troverebbe, per Weber, la natura dello spirito del capitalismo?
Sono tre i principali elementi della classica narrazione di Weber. Il primo ruota attorno alla parola vocazione – in tedesco baruf. Nel mondo protestante la parola vocazione aveva assunto, molto presto, anche una esplicita connotazione lavorativa, tanto che baruf significa, a un tempo, vocazione e professione. Nel mondo cattolico, invece, vocazione continuava a essere parola essenzialmente spirituale, usata in particolare per monaci, monache e frati. Qui si trova il primo passaggio fondamentale. Lutero criticò duramente le vocazioni consacrate nella chiesa cattolica («sono state dettate dal diavolo», diceva), una critica che portò presto alla (quasi) scomparsa dal mondo protestante di monaci e frati. La cancellazione di questo secondo “binario” della vita cristiana produsse naturalmente lo spostamento della categoria di vocazione dalla vita religiosa alla vita civile. Espulsa dai monasteri, la vocazione divenne l’abito civile di tutti i cristiani riformati. Quella “forma di vita” radicale che nel cattolicesimo era e rimase appannaggio della sola vita consacrata, nel mondo protestante diventa forma di vita universale civile e laica. L’ora et labora dal monastero emigrò nelle città divenendo la regola ordinaria del cristianesimo protestante. L’intera vita divenne liturgia, e quindi abbracciò tutto il tempo di tutti i giorni. L’etica del lavoro divenne qualcosa di sacro, espressione di un officium. Non capiamo l’umanesimo protestante senza questa ascesi mondana. Monaci diversi in mezzo alle città: «L’adempimento del proprio dovere nelle professioni mondane, divenne il più alto contenuto che potesse avere l’etica» (Weber, 1905).
Il secondo elemento è la dottrina della predestinazione. L’idea di predestinazione ha nel cristianesimo una lunga e complicata storia, a partire, almeno, da Agostino. I salvati sono stati scelti fin dall’eternità da Dio, con criteri a noi ignoti, e quindi nessuna santità morale e nessuna opera può cambiare il nostro destino predeterminato. Una idea biblicamente incerta, ancorata alla Scrittura dal tenue appoggio della Lettera agli Efesini: «Ci ha scelti prima della creazione del mondo … predestinandoci a essere suoi figli adottivi» (1,4-5). Una tesi che portava ad affermazioni estreme: «Iddio è morto solo per gli eletti» (Calvino).
Dalla predestinazione derivava poi un dato psicologico decisivo: gli eletti non possono sapere, soggettivamente, di essere tali perché non sono distinguibili dai non-eletti. Da qui la profonda solitudine dell’uomo di fronte al suo destino. Il calvinista trascorre la vita in una incertezza radicale che per Weber assume la forma dell’angoscia, che nasce dal non poter essere certo della propria salvezza.
Ed è qui che arriva il terzo elemento. Riprendendo tradizioni dell’Antico testamento, la teologia calvinista compie un’operazione ardua. In una condizione di incertezza e angoscia, la ricchezza diventa un segnale di elezione, il segnale più importante. Perché ricchezza dice (o almeno aumenta la probabilità) di essere parte del numero degli eletti. La ricchezza, anche nella Bibbia, è stata un segnale di qualcosa di diverso, più grande e invisibile, e per questo voluta e bramata. Nel capitalismo calvinista l’invisibile diventa il paradiso.
Vocazione, predestinazione e ricchezza-segnale: ecco i tre ingredienti dello “spirito” del capitalismo, diversissimo dallo spirito commerciale medioevale.
Una intera nuova classe di imprenditori iniziò così a leggere il successo economico come benedizione, a vivere la loro professione come vocazione e ascesi, e – fattore decisivo – attorno agli imprenditori cresce l’approvazione sociale di quella ricchezza-benedizione, non più vista come segno di peccato ma di elezione. La ricerca del profitto diventa eticamente accettata e lodata, da vizio virtù.
La vita, poi, vissuta come vocazione e ascesi, non è una vita di comfort né tantomeno di lusso. Tutto è impegno, puntualità, severità, non lasciar spazio e tempo per svago, festa. Solo il monaco medioevale e il capitalista odiano l’accidia come il male più grande. L’imprenditore calvinista non si gode i suoi profitti, il denaro non viene cercato per essere consumato ma per essere rinvestito e diventare altro denaro. È il valore intrinseco della ricchezza a fare quel primo spirito del capitalismo, e a segnare una importante differenza tra lo spirito protestante e quello cattolico del capitalismo, dove invece la ricchezza non vale nulla se non è ostentata e vista dagli altri. Il capitalista descritto da Weber è davvero un monaco, un “consacrato” che pratica una specie di voto laico di povertà pur in mezzo a molto denaro. E come il monaco cattolico era individualmente povero ma viveva in monasteri ricchi, il capitalista calvinista è individualmente povero e la sua ricchezza si accumula nella fabbrica – sta anche qui una improbabile analogia tra monastero e moderna industria.
Non è difficile cogliere nell’affascinante teoria weberiana alcune grandi aporie e paradossi del capitalismo, un sistema nato dall’imitazione laica della logica della vocazione dei monaci, che però non produsse il “nulla possedere”, ma la lode del profitto.
Una prima aporia. Il protestantesimo nasce, sulla scia di Agostino, da una feroce critica alla teologia pelagiana, all’idea che la salvezza fosse legata alle opere e non fosse, invece, sola gratia. Nello spirito calvinista torna, paradossalmente, una forma di pelagianesimo. La salvezza viene associata alle opere, sebbene le opere non siano il mezzo della salvezza ma soltanto il mezzo per «liberarsi dall’ansia per la salvezza» (Weber, 1905). È un pelagianesimo di secondo ordine, ma sul piano pragmatico siamo molto vicini all’etica di Pelagio. E così, dalla critica a Pelagio, nacque un capitalismo basato sull’idea che la salvezza fosse legata a opere produttrici del bene meno “celeste” nei Vangeli: mammona.
Ma c’è di più. La visione della ricchezza come segno di elezione e di benedizione porta inevitabilmente con sé l’idea gemella della povertà interpretata come segnale di condanna. Ogni teoria della buona ricchezza è anche una teoria della cattiva povertà. E se la “bontà” dei ricchi viene legittimata e consacrata da un crisma religioso, la maledizione dei poveri diventa doppia maledizione. La povertà è sempre stata, prima di una indigenza di denaro e di beni, una carenza di benedizione, uno stigma religioso, e quindi insieme una colpa e una vergogna.
Non dobbiamo mai dimenticare che la Bibbia aveva sempre visto con sospetto l’equivalenza tra ricchezza e benedizione perché sapeva molto bene che questa equivalenza ne portava con sé immediatamente un’altra tremenda e pericolosa: povertà = condanna. Ecco perché accanto alle pagine bibliche sui beni come segno di giustizia e predilezione (Abramo), la Bibbia ne ha posto molte altre che dicevano il contrario. Sono le pagine dei profeti, quelle stupende di Giobbe, tutte orientate a smontare la tesi del povero maledetto e colpevole. Sta qui il senso vero di “beati i poveri”, della cruna e del cammello, di Francesco e dei tanti che scelsero la povertà per liberare dalla maledizione chi la povertà non l’aveva scelta.
L’economia che pone la ricchezza al centro della sua strana religione, sarà sempre una economia che prima di chiamare i ricchi benedetti chiama i poveri maledetti. Il capitalismo individuando nella ricchezza una benedizione e una promessa, produce inevitabilmente una infinita schiera di scartati, di maledetti e colpevoli perché non portano sulla fronte il sigillo dell’elezione. E se il segno degli eletti fosse invece il “segno di Caino”, che continua a uccidere il fragile e povero Abele?!
Il capitalismo del XXI secolo, lo vedremo, ha spostato il segnale di benedizione dall’imprenditore al consumatore, ma continua a essere un grande meccanismo generatore di salvezza (immaginaria), e una grande ideologia per chiamare i poveri maledetti, poi dimenticarli nei nostri bassifondi, tenuti ben nascosti per convincerci di aver finalmente sconfitto la povertà.
Il capitalismo di oggi non sa più nulla di Calvino, della Bibbia e della dottrina della predestinazione. Ma continua, nell’angoscia, a cercare nella ricchezza il paradiso e la benedizione. E la povertà continua a essere maledizione, e i poveri ad essere chiamati maledetti. Quando impareremo a vedere il segno di Abele?