L’autentica radice della natura e dell’agire di Francesco è definita da una duplice, appassionata obbedienza: assoluta obbedienza alla sua missione che lo orienta al Vangelo e soltanto al Vangelo (un ‘soltanto’ che egli, nell’espressione sine glossa, valorizza e afferma contro l’arte della glossa e del commento del suo, come di ogni tempo). Quest’obbedienza perdura evidente e chiara sino agli ultimi giorni della sua vita, nei quali egli detta il suo testamento da semplice frate minore, senza ufficio né ruolo; obbedienza che, a fronte della già avvenuta trasformazione canonica della sua istituzione, ancora una volta sta nell’aver ricevuto il suo compito direttamente da Dio e nell’integrale riferimento al Vangelo: «E dopo che il Signore mi dette dei fratelli, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo […]. E a tutti i miei frati, chierici e laici, comando fermamente, per obbedienza, che non aggiungano spiegazioni alla Regola né a queste parole dicendo: ‘Così devono essere intese’; ma come il Signore ha dato a me di dire e di scrivere […], così voi con semplicità e senza commento dovete comprenderle, e santamente osservarle sino alla fine».
Insieme a quest’obbedienza integrale al compito direttamente ricevuto, in cui si vede il carisma di questo Santo, c’è però la volontà altrettanto decisa di stare obbediente nella Chiesa concreta, per sopportare e patire in essa il compito dell’obbedienza a Dio, che non può essere adempiuto se non in essa, nella pazienza di svolgere il proprio compito stando in essa e per essa. Qui Francesco rassomiglia in tutto e per tutto a sant’Ignazio, che con gioia accettò le catene dall’Inquisizione per adempiere in quel modo sia l’obbedienza al suo compito, sia l’obbedienza alla Chiesa concreta nella quale egli doveva realizzarlo. L’una cosa non può mai condurre alla ri- nuncia dell’altra, ma solo alla rinuncia di sé stessi. L’obbedienza al compito non è sminuita ma resa completa dall’obbediente stare nella Chiesa, perché solo questo conferma l’altra: l’autentico criterio del vero carismatico è l’abbandono di sé; ovvero, detto in termini più radicali: il criterio del vero carisma è la croce, il lasciarsi dilaniare tra il compito e il luogo del suo adempimento per amore del compito stesso.
Chi non è disposto a questo, chi preferisce l’incolumità dell’io all’adempimento del compito nel luogo che è proprio a esso, dimostra che in buona sostanza considera comunque il proprio io più importante del compito, distruggendo in questo modo il carisma. In ultima analisi la scissione deriva dal fuggire la croce e dall’egoismo. Francesco riuscì a riportare nella Chiesa (dalla quale erano già stati banditi) il movimento della povertà e della pace, il movimento dei laici e dell’evangelizzazione, perché egli stesso si sottomise completamente alla croce: le stimmate, in questo senso, sono realmente espressione del luogo e della forma della sua esistenza. Ma questo, riassumendo, significa che la croce è luogo sorgivo e al contempo segno distintivo dello Spirito. Con ciò siamo giunti di nuovo, in base alle esperienze della storia della Chiesa, al nesso fra cristologia e pneumatologia, e più precisamente alla loro interconnessione, che abbiamo imparato a riconoscere come ciò che caratterizza la concezione paolina.
La prospettiva, peraltro, ora è diversa: in Paolo abbiamo visto che la pneumatologia è sviluppata a partire dalla fede nella risurrezione, ora essa ci si presenta come funzione della theologia crucis. Ma non c’è contraddizione. Infatti, per Paolo come per l’intero Nuovo Testamento, croce e risurrezione s’intrecciano, così che croce è sempre risurrezione incipiente o, in termini giovannei: «l’andar via» racchiude e al tempo stesso è già sempre l’autentico «venire». Per converso, in questo tempo storico, il mistero della risurrezione assume la forma della croce; il ‘già’ della risurrezione è sempre presente soltanto nel ‘non ancora’ della croce. La croce è come «la porta stretta» nella quale la storia è convogliata e attraverso la quale va verso la Risurrezione. Al Vangelo di Giovanni, che ha conferito alla reciprocità di promessa escatologica e presente cristiano l’ultima forma concettuale all’interno del Nuovo Testamento, dobbiamo anche la più bella immagine dell’unità di croce e risurrezione, di cristologia e pneumatologia: il suo resoconto della passione si conclude con il racconto dell’apertura del costato di Gesù dal quale fluirono acqua e sangue (19, 31-37): i racconti della risurrezione culminano nel racconto del dono dello Spirito Santo ai discepoli attraverso l’alitare su di loro: racconto della Pentecoste e racconto della Pasqua qui si fondono in una pneumatologia cristologica.
L’immagine del sangue e dell’acqua che fluiscono dal costato aperto dice con grande forza la stessa cosa: le acque feconde dello Spirito, che rinnovano la terra, sgorgano dal Crocifisso. Lo Spirito è frutto della croce. Dicendo questo siamo posti direttamente davanti ai compiti e alle questioni dell’oggi della Chiesa. Infatti, quest’affermazione non vale solo per allora, ma rappresenta il criterio permanente della pneumatologia per la Chiesa di ogni tempo. L’acqua della vita zampillata nella Chiesa nel nostro secolo proviene da coloro che hanno sofferto senza lamentarsi e non da coloro che in fin dei conti pensavano solo a sé stessi. La croce è l’autentico discrimine fra lo Spirito e quello che Spirito non è: solo dal cuore aperto sgorgano sangue e acqua. Il mistero di questa immagine ci interpella proprio in questo nostro tempo: è insieme orientamento, appello e promessa. Si può capire veramente che cosa significa «Non spegnete lo Spirito» (1Ts 5, 19) solo davanti al costato aperto del Signore, la fonte dello Spirito nella Chiesa e per il mondo.