Al convegno internazionale per la formazione permanente dei sacerdoti in Vaticano, il cardinale Bustillo ha invitato ad abbandonare la «visione sociologica, orizzontale» con cui ormai si è soliti guardare alla vita sacerdotale.
Ai preti riuniti all’auditorium della Conciliazione, abituati alle strigliate diventate un must in Vaticano, deve essere sembrato balsamo per l’anima ascoltare le parole del cardinale Bustillo che li ha invitati ad abbandonare la «visione sociologica, orizzontale» con cui ormai si è soliti guardare alla vita sacerdotale. Il francescano franco-spagnolo ha osservato che «l’errore, senza dubbio, è stato quello di constatare le difficoltà e di cercare soluzioni, ma «alla maniera del mondo, dando risposte tattiche, senza uno sguardo di fede». La fede, troppo spesso sottovalutata quando si affrontano discussioni sul sacerdozio.
Da qui l’appello di Bustillo a riconvertire lo sguardo sulla crisi della Chiesa e ad improntarlo alla fede. La smania del cambiamento a tutti i costi in virtù di un’accezione obbligatoriamente positiva che ad esso viene attribuita è largamente diffusa nella società e non ne è risparmiata la Chiesa. Ma c’è un errore di fondo che Bustillo ha evidenziato: «Vogliamo cambiare il mondo volendo che gli altri cambino (…) lo sguardo è spesso all’esterno (…) gli altri devono cambiare». Alla Chiesa viene chiesto continuamente di cambiare da chi ne è estraneo, spesso ostile. A queste richieste c’è chi, da dentro, si è convinto che non si può dire di no prima ancora di chiedersi in che direzione possono portare. Anche per ciò che riguarda la formazione dei sacerdoti si predica cambiamento agitando ricette poco calate sulla realtà e molto su un piano ideale. Non si può pensare di affrontare un tema delicato come quello della preparazione dei sacerdoti affidandosi alle generalizzazioni, se non addirittura ai pregiudizi. Quello che si pensa possa valere per uno, non è detto che valga per tutti. Lo ha spiegato bene il vescovo di Ajaccio dicendo che se «abbiamo modelli “standard”, generali per tutti, non dobbiamo trascurare la formazione ad personam, tenendo conto della sensibilità, del carattere e del percorso personale di ogni persona».
«Il nostro tempo richiede una formazione più carismatica che tecnica», ha detto il francescano al migliaio di preti riuniti all’Auditorium. Parole che riprendono il concetto di fondo del suo libro più famoso, quel “Testimoni, non funzionari. Il sacerdote dentro il cambiamento d’epoca” con cui ha conquistato la stima di papa Francesco e probabilmente anche la porpora. Non è sufficiente strigliare il prete “zitellone” per sferzarlo, senza interrogarsi e magari comprendere le cause di quella sfiducia.
Il cardinale franco-spagnolo pare non ignorarlo se ha rimarcato che «senza una forte spina dorsale spirituale, il sacerdote non sarà in grado di svolgere la sua missione con entusiasmo». E poi, controcorrente, l’intervento al convegno ha fatto chiarezza sulla linea di demarcazione tra sacerdote ed operatore sociale: «Lo scopo della formazione non è il successo pastorale, i sacerdoti non sono formati per guadagnare gente ma per dare la loro vita. Quando ordiniamo sacerdoti, durante il rito, non li ordiniamo per fare cose, ma per essere testimoni di Cristo».
Una puntualizzazione non più scontata, anzi: non è eccessivo definirla coraggiosa in un simile contesto. Alla base deve esserci la consapevolezza che «un sacerdote in un momento di crisi deve dare visibilità e credibilità all’azione di Gesù nel mondo». Il cardinal Bustillo, dunque, ha avuto il merito di «rimettere la chiesa al centro del villaggio», parlando da prete ai preti, senza puntare l’indice ma piuttosto sollevandolo per indicare una strada da intraprendere: quella del Vangelo. Senza fatalismo, tenendo sempre a mente che «la Chiesa nel passato ha fatto sognare, oggi non deve fare piangere».