“Babele” e la disgrazia di molteplici frastuoni
La “Babele” contemporanea è rumorosa: non ha la grazia del silenzio, ma la disgrazia del frastuono. Essa non è luogo che conosce e permette il raccoglimento prolungato, l’inginocchiamento orante, la conservazione e la crescita della vita interiore. Da essa il silenzio è stato bandito come uno straniero indesiderato: è stato spinto a forza fra i boschi e sulla cima dei monti; è stato ricacciato nei chiostri di clausura stretta come pane per pochi; è stato interrato nei cimiteri, in compagnia dei morti. A “Babele” è difficile pensare, è faticoso apprendere e insegnare, è arduo anche poetare: «Il poeta dei nostri tempi, come il mistico, ha provato almeno una volta nella sua vita il desiderio di “morire di silenzio”» (Massimo Baldini [a cura di], Il silenzio, Vicenza, 1986, pagina 9).
Oggi il mondo pullula di esistenze senza contemplazione, senza ascolto, senza dialogo. A “Babele” nessuno ascolta più nessuno, ed è cosa assai preoccupante, poiché denota una crisi di relazione, d’affettività, di tenerezza dalle proporzioni smisurate: «Nessuno ha tempo di ascoltarvi, neppure quelli che vi amano e sarebbero pronti a morire per voi», afferma con freddezza un personaggio di un famoso romanzo, Il mio cuore ti ascolta di Taylor Caldwell (Milano, 1974, pagine 14-15). Fra l’altro, la moderna “Babele” è segnata dalla confusione. Siamo in una società complessa, i cui vantaggi non vanno negati, ma siamo anche in una società frastornata non solo da rumori, ma da alcune malattie culturali. A esempio, si sono creati intorno alla libertà di pensiero e di parola (libertà sacrosante) tre parossismi pericolosi e servanti: 1) il relativismo che frantuma la realtà veritativa fino alla sua precipitazione in un nichilismo di fatto che diventa l’aria che respiriamo, come insegnava fino a qualche anno fa, con grande lucidità, Pietro Prini; 2) la perdita dell’unità dei saperi, oltre ogni legittimo riconoscimento della multidisciplinarità, della interdisciplinarità e della transdisciplinarità, cadendo in quella che Michele Federico Sciacca chiamava la “dittatura del genitivo”; 3) la riduzione della magnifica ermeneutica a una tendenza interpretativa fine a se stessa, quasi dimentica dell’oggetto che deve interpretare.
Se l’uomo di “Babele” diventa balbuziente e mestatore
L’uomo di “Babele” non gode di piena salute spirituale, è ammalato di rumore. Al suo “mal di parola” l’uomo d’oggi aggiunge l’uso perverso della parola, che non serve più per il servizio alla verità e per l’avvicinamento fra gli uomini, ma per altro (cfr. Michele Giulio Masciarelli, Abitare il silenzio, Roma, 1998, pagina 14). In modo particolare rattrista oggi che si faccia un uso retorico e bugiardo della parola: si promette attenzione, presenza, risoluzione di qualche problema proposto, ma senza mai un seguito positivo. Si usa la parola per di porto, dimenticando le cose dette nei dialoghi più impegnativi, e riusando subito dopo la parola come paravento, come arma di difesa falsa, come mezzo per continuare a gabellare. Questo è il tipo di una parola rumorosa. Senza mezzi termini, questo è un uso malignamente rumoroso della parola. Davvero l’uomo dell’odierna “Babele” è, il più delle volte, un balbuziente e non si sa che cosa dica, è un imbroglione che, invece, si sa che cosa fa: inganna. Giustamente, va richiamata una severa discrezione nel parlare e va insegnato che «vivere non è parlare, ma correre da chi ha bisogno» (cfr. Vittorino Andreoli, Il rumore delle parole, Milano, 2019).
La corsa verso chi ha bisogno va fatta non tanto per aggredire con la parola, spesso vanitosa e sfacciata, ma con l’umiltà del chiedere di che cosa si ha bisogno, dal momento che «il primo dovere dell’amore è quello di ascoltare» (Paul Tillich).
In verità, il silenzio nella moderna civiltà europea è stato sempre insidiato: prima «la tipografia rese rauche le voci del silenzio» (Marshall McLuhan, La galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico, Roma, 1976, pagina 328); poi «i mezzi di comunicazione elettronici hanno portato un attacco radicale alla dimensione del silenzio» (Massimo Baldini, Le parole del silenzio, Cinisello Balsamo, 1986, pagina 7); oggi l’uso non etico dell’informatica ha colpito la radice del silenzio, talora in modo irrimediabile. Nel nostro tempo e nel nostro mondo tutto è rumoroso: le strade, quelle a scorrimento veloce (con i loro traffici assordanti) e quelle pedonali (coi telefonini asfissianti), le scuole (spesso agitate, ma quasi mai per motivi culturali), le chiese (a esempio le liturgie spesso soverchiano con le parole e col canto ogni tempo di silenzio), gli stadi (palesemente negati al silenzio), i parlamenti (spesso più arene per lotte e mercati che luoghi di riflessione e di parole pensate e pesate), le case (per molte ore della giornata consegnate al dominio della straripante parola televisiva).
L’ammonimento di Guardini: Attento, Occidente!
La perdita del silenzio pone in pericolo la spiritualità, la cultura e la salute psicologica dell’Occidente europeo, che rischia così di disperdere le grandi risorse spirituali che gli provengono dalla riflessione filosofica, dall’esperienza artistica e anche dalla grande teologia cristiana. È un pericolo che Guardini ha saputo scorgere con occhio profetico già prima che iniziasse lo scivolamento della modernità nella post-modernità: «Le forze del silenzio e dell’interiorità, del nucleo dell’uomo minacciano di abbandonare l’Europa. E, se se ne andranno davvero, allora l’Occidente dovrà inaridire, poiché la sua grandezza era alimentata nel più profondo da quelle forze» (Romano Guardini, Volontà e verità, Brescia, 1978, pagine 187-188).
Alle nuove generazioni dell’Europa di oggi, che cercano — magari involontariamente — una soluzione alla nevrosi dell’attivismo, occorre rendere il servizio educativo di riconquistare la sapienza del silenzio, aiutandoli anzitutto a trovare una convincente e duratura evasione dalla «Geenna del rumore» (Massimo Baldini, Educare all’ascolto, pagina 7). Si è giustamente sottolineato il carattere infernale del rumore, del frastuono, della bolgia acustica che caratterizza il nostro tempo per i suoi effetti di divisione e di lacerazione a ogni livello dell’umano: c’è «qualcosa di cupo, di tellurico, di orrendo, di ostile, qualcosa che può prorompere da un momento all’altro dall’ima profondità del silenzio, qualche cosa d’infernale, di demoniaco» (Max Picard, Il mondo del silenzio, Milano, 1951, pagina 51). La moderna “Babele”, frastornata fino allo sfinimento, potrà guarire con una vera cultura e una profonda spiritualità del silenzio. Questo significa che il silenzio non va lambito, ma stabilmente abitato. L’uomo d’oggi è in cerca di un silenzio duraturo e capace di tessere la sua intera esistenza.
Nell’Avvento con Maria “cripta” del silenzio
Inizia, per i cristiani, l’anno liturgico. Le feste cristiane sono esplosioni gioiose; tuttavia in ogni festività vi è anche, nascosto, una venatura e addirittura uno spazio di silenzio. In particolare, nel tempo di Avvento, che non solo prelude alla memoria di una nascita, ma interroga il credente sulla profondità della sua fede, la dimensione del silenzio è presente. Vorremo, con alcuni interventi meditativi sul nostro giornale, addentrarci, almeno un poco, nei territori del silenzio, quello che accompagna l’Avvento e quello che permea l’intera esistenza cristiana, cercando di rispondere alla domanda, che intriga anche altre dimensioni: «Di quale silenzio ha bisogno ciascuno di noi?». Contemplando Maria sapremo rispondere a questa domanda.
Il silenzio attraversa l’intera esistenza di Maria e ne collega i vari aspetti con i suoi fili forti e delicati; cosicché, in un qualche modo, il silenzio definisce la persona e l’opera della Vergine Madre, che è insieme la creatura della Parola e la creatura del silenzio. C’è, su questa considerazione, una bellissima pagina del 208° Capitolo generale dell’Ordine dei Servi di Maria, celebrato nel 1983 sul tema Fate quello che vi dirà: «Nel silenzio, il cuore della Vergine appare arca, in cui si conserva la “memoria” degli interventi di Dio nella storia d’Israele; quale luogo in cui, richiamati dalla riflessione, confluiscono i tempi di “prima” — di Adamo, di Abramo, di Davide — e da cui si diparte il tempo del “dopo” — di Cristo e della Chiesa — ; quale terra, in cui è stato seminato il buon seme che porterà frutti abbondanti; quale scrigno, dove sono custodite le parole di cui lo Spirito darà progressivamente alla Vergine stessa e alla Chiesa l’intelligenza piena e dove è depositata la legge del Signore, luce e norma di vita» (Leumann, Torino, 1985, pagina 65).
Da questa lucida pagina di mariologia si ricava una logica conseguenza: se Maria è creatura di silenzio, il suo mistero può essere penetrato solo per vie di silenzio. Inserita nel vortice del mistero trinitario, che regge tutti i punti nodali dell’evento messianico nel quale la madre di Cristo è immersa, ella non può essere colta nell’agitazione delle idee o dell’immaginazione, ma solo percorrendo la strada teologica, che deve avvalersi, dall’inizio alla fine della sua riflessione, della ruminazione prolungata e orante della Parola rivelata, della chiave ermeneutica della fede, del silenzio della contemplazione, oltre che di un maturo e complesso sensus Ecclesiae. Lei è anzitutto la Donna della Parola, ma è stata «l’avvicinata nel silenzio e nella sobrietà contemplativa» (Giancarlo Bruni). Questo significa che la Parola di Dio, mezzo necessario di salvezza, può essere accolta e vissuta solo in un virtuoso silenzio.
di Michele Giulio Masciarelli