Non è difficile constatare che, mentre si svuotano le chiese e vengono meno le appartenenze a un’istituzione religiosa, cresce ovunque e in modo trasversale, dalle generazioni più anziane a quelle più giovani, l’interesse per cammini di interiorità ispirati a diverse tradizioni spirituali. Anche la stessa editoria testimonia questa tendenza: i bestseller religiosi non sono generalmente né biblici né teologici, e tanto meno ispirati alla grande tradizione patristica occidentale o orientale, ma sono i cosiddetti “libri di spiritualità”, che intercettano un bisogno psichico di spiritualità, cosa ben diversa dalla fede.Da sempre seguo con molta attenzione la produzione di questi libri e constato come sia difficile trovarvi una vera ispirazione, un primato, un’egemonia della parola di Dio e, soprattutto, del Vangelo. In pochi decenni i sentieri della tradizione spirituale cristiana sono stati tralasciati, mentre i nuovi percorsi mi appaiono quasi tutti finalizzati a una spiritualità del benessere individuale, nella quale magari si nomina ancora Dio, ridotto però a energia cosmica, a un’impersonale rappresentazione dell’oltre… È una spiritualità senza dimensione comunitaria né tantomeno ecclesiale, senza esigenze di concrete relazioni e impegni fraterni, che si nutre invece di esperienze soggettive prive di volto, privilegiando una ricerca interiore narcisistica. Anche papa Francesco nell’Evangelii gaudium ha sentito il bisogno di denunciare questa deriva, da lui descritta come ricerca di “energie armonizzanti” (n. 90).
È significativo che il comando rivolto da Dio ad Abramo, quello da cui ha origine la storia di salvezza: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre” (Gen 12,1) – il famoso Lekh lekha, in ebraico –, oggi sia compreso e predicato come: “Va’ verso te stesso”, secondo l’interpretazione di alcuni rabbini. Si dimentica però che la parola di Dio rivolta ad Abramo gli chiede di uscire, di andare, di lasciare tutto ciò che sta intorno a sé, per muoversi verso altre terre, altri orizzonti; e in questa uscita anche da se stesso, egli è chiamato ad andare tra le genti della terra, per portare a tutti la benedizione. Il movimento centripeto del viaggio interiore ha invece finito per assorbire e neutralizzare il messaggio decisivo: “Va’, esci da te stesso!”.
Ecco perché questa interiorità, pur necessaria, se è fine a se stessa e si ferma a una conoscenza di sé, è narcisistica, individualistica, contraddicendo in tal modo tutto il messaggio biblico, secondo il quale si cerca Dio se si cerca l’uomo, si crede in Dio se si crede anche negli altri, si ama quel Dio che non si vede se si amano anche gli altri che si vedono (cf. 1Gv 4,20). Questa spiritualità – devo confessarlo con molta tristezza – è ormai quella presente nella stessa predicazione, addirittura nell’omelia domenicale. Per molti aspetti, si è tornati al vecchio vizio preconciliare: quello della “predica”, di uno stile oratorio che vuole impartire lezioni agli ascoltatori. Certo, una predica oggi rinnovata con molti apporti delle scienze umane, specialmente dell’antropologia o della psicologia, ma essenzialmente moralistica. Un parlare che non contiene nessuna profondità teologica, nessuna rivelazione, nessun mistero, nessuna buona notizia, ma solo una chiamata ai valori, alla vita perfetta.
Così la vita cristiana è ridotta a un comportamento morale che, invece di annunciare, denuncia; invece di dare la buona notizia, offre una cattiva comunicazione. Il Vangelo è nuovamente ridotto a legge e non è più vita. Anche Gesù, in questa visione, è ridotto a qualcuno che insegna come vivere in questo mondo, mentre non si ha più la forza né la fede di dire che Gesù Cristo è la vita (cf. Gv 14,6): non è un maestro di spiritualità in concorrenza con altri cammini, ma è la vita! Occorre dunque il coraggio di ribadirlo: se è vero che Gesù Cristo è il Vangelo e il Vangelo è Gesù Cristo (cf. Mc 8,35; 10,29), allora il Vangelo non ci insegna a vivere ma ci fa vivere. Gesù Cristo, il Vangelo, è la vita!