Può suonare strano l’aggettivo “minore” attribuito alla chiesa. Che suoni strano alle nostre orecchie la dice lunga su quanto ci siamo allontanati dal vangelo, dal Maestro che ci chiedeva di essere “ultimi”.
Ma quando tra le pieghe della storia sorprendi scampoli di una chiesa “minore” ti sembra di sentire profumo buono per le strade. Dal profumo del pane la riconosci, buona come il pane, perché il pane è semplice, non si esibisce, sta senza parlare su una tavola, si lascia spezzare. E infatti penso di non essere lontano dal vero immaginando che si senta male, il pane, e se parlasse lo direbbe, quando lo mettono nelle vetrine, in esposizione. La sua esposizione, quella vera è sulla tavola. L’unica esposizione che sopporta. L’unica che ha sopportato Gesù. Qualcuno voleva dargliene un’altra, ma allora lui si eclissava. Quasi a ricordarci che, quando ci sono esposizioni o sovraesposizioni, lui si eclissa. Succedeva allora, succede anche oggi, in noi e nella chiesa, l’eclissi di Dio, di Gesù.
Ma, proprio dentro l’eclissi, ecco di tanto in tanto apparire – la incroci ai margini, alla periferia – una chiesa minore. Chiesa minore, che non appare nell’immaginario che della chiesa si fa la società. Dove imperante, da “impero”, è invece la declinazione gerarchica della chiesa.
Permettete di confessarvi che a volte, così poco virtuoso come sono, mi prende sdegno per questa equazione, passata per secoli ed ora difficile da sradicare: chiesa-gerarchia. Quali sono infatti le immagini che si accendono nell’immaginario collettivo al pronunciarsi della parola “chiesa”? Immediatamente vengono ad occupare la ribalta le figure del Papa, dei Cardinali, dei Vescovi; le immagini imponenti, a volte prepotenti, delle assemblee ecclesiastiche prestigiose e colorate o delle celebrazioni spettacolari. Quando mai la parola “chiesa” evoca la chiesa “minore”? Quella che vive nel silenzio delle comunità, quella che cammina ogni giorno con la gente, condividendo gioie e tristezze, fatiche e speranze?
Eppure c’è bisogno di una chiesa minore. La mia piccola esperienza, di prete ormai vecchio, mi conferma che gli spiriti, che ancora hanno sete, la cercano. Ce n’è bisogno. Come c’è bisogno di quel pane buono, umile e silenzioso, della tavola.
Che cosa può significare “chiesa minore”? Vado per accenni. Dirò piccole cose, piccole e in disordine. Con il disordine di chi procede più per suggestioni e sussulti e trasalimenti che non per riflessioni articolate e pacate, però nella speranza che queste povere suggestioni raccontino una briciola della vita.
“Chiesa minore”, vorrei dirvi, evoca non primariamente una collocazione gerarchica, di distanza dai quartieri alti, di dimora nei quartieri bassi. Anche se è vero che spesso il luogo dove la trovi è questo, dei quartieri bassi, delle periferie dell’umanità. Dove infatti per lo più la vedi, se non in basso, per le strade? Lì e non altrove vedi la chiesa minore, i beati del vangelo, i beati del monte o della pianura. Qualche volta li vedi, ma raramente, nei palazzi. Quando un palazzo, il Vaticano per esempio, per grazia diventa strada e casa, diventa monte, pianura, quando annullata è la distanza e ad abitarlo è un piccolo, un “minore” “C’era una volta…” diceva Padre David Turoldo, pensando a Papa Giovanni “invece ora…”. C’era una volta…
Ma la qualifica “minore” prende subito un significato più profondo, interiore. Una dimensione dello spirito. Un sentirsi “minore” dentro, sentirsi “meno” dentro, “piccola” dentro, “ultima” dentro. Per una sorta di affascinamento da vangelo. Il vangelo con quella parola dimenticata: “non così dovrà essere tra di voi”. “I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra di voi, ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo e colui che vorrà essere il primo, si farà vostro schiavo, appunto come il Figlio dell’uomo che non è venuto per essere servito ma per servire” (Mt 20,25-28). Schiavo, l’ultimo di tutti. L’ultimo non ama i troni e i palazzi. I troni e i palazzi li abitano i dominatori del mondo.
C’è tutto un apparato ecclesiastico che stride con questa dimensione della minorità, dell’essere “ultimo”. Se ci è rimasto rispetto per le parole del vangelo e il timore di vanificarle svuotandole del loro sapore, dovremmo, forse, con sincerità chiederci se la chiesa oggi viva nel mondo cercando veramente l’ultimo posto. Ma non per esibire la falsa umiltà di chi, grande come si sente, dall’alto della sua presunta perfezione si degna di dirsi minore, ma con la consapevolezza interiore, l’intima persuasione, di essere in realtà “poco”, di essere briciola, di essere vuoto.
Il riconoscimento vero e non strumentale di questa pochezza ci dovrebbe portare ad una purificazione. Partiamo dalle cose più marginali, pensate ai titoli che permangono, senza che ce ne facciamo problema e dicono una chiesa maggiore: “monsignore”, “eccellenza”, “eminenza”, “santità”, lo stesso “don” da dominus. Posso sbagliarmi, ma a volte penso che se tanti, forse troppi, “spettacoli” ecclesiastici più non ci turbano, è perché evitiamo di metterli a confronto con Gesù: sono spettacoli dove onorata è la grandezza mondana, onorato è il titolo di “maggiore”. Dove vanno gli onori della chiesa? Ce lo domandiamo? E dunque ancora per una fedeltà evangelica ci urge l’invito ad essere minori.
Chiesa minore è la chiesa che confessa che l’unico Signore è Dio e il suo Figlio Unigenito, Gesù di Nazaret. E quindi chiesa che si confessa “relativa”. Non possiamo presentarci come un assoluto, non possiamo pretendere di occupare noi lo spazio, non possiamo avere l’aria di chi si sente padrone né della verità, né della morale, né del popolo di Dio, né delle ultime parole sulla vita e sulla morte. Sentirci relativi, a chi? A Cristo. Mendicanti della luce. Come Giovanni che alla fine capì una cosa – e non deve essergli costato poco capirla – che, se il suo desiderio di indicare Gesù era sincero, allora doveva diminuire se stesso e farsi da parte. Una chiesa che si diminuisce e si fa da parte. Non accende i riflettori su di sé ma su un Altro. L’impressione, mia e quindi soggettiva, è che al contrario oggi ci sia in fatto di religione un gran parlare di chiesa e una rarefazione impressionante su Gesù, quasi assistessimo alla nascita o vivessimo in una stagione ecclesiale segnata da un impressionante esibizione di chiesa.
E’ come se la piccolezza che ci segna e che ci appartiene come chiesa, piccolezza, debolezza e peccato, fossero da confessare solo all’inizio delle celebrazioni liturgiche nelle chiese, ma poi fuori lo stile è diverso: non è di chi è salvo solo per misericordia o di chi confessa la sua infedeltà e quindi confessa – notizia buona! – un Dio che ci è fedele, anche quando noi siamo infedeli.
Chiesa minore è una chiesa fedele alla segretezza, la segretezza evangelica, chiesa che non ama le piazze, che non si fa vedere sulle piazze, ama il segreto, prega nel segreto. Dà, senza far sapere, senza esibire. Come se fosse la cosa più naturale del mondo, non suona la tromba. Dà e non sa una mano ciò che fa l’altra, dona nel segreto. Si profuma il capo quando digiuna. Parole del vangelo, parole che contano, contano ancora oggi per la chiesa minore.
Chiesa minore è una chiesa che confida nei mezzi poveri, non cerca alleanze, né cerca strumenti di potere, non cerca strategie umane o, peggio ancora, mondane, non confida nei cavalli, ma nell’umile asino come il suo Signore, nella fionda irrisa di Davide e non nell’armatura del gigante Golia. Chiesa che conta sulla potenza della croce, sulla sapienza della croce. E confida nei mezzi piccoli, una piccola voce, non alza il tono nelle piazze. Pensate ai fili silenziosi, quasi segreti che tessono la vita. Tessono e passano il vangelo. Con il sottovoce delle cose vere. Quelle che, se vengono dal cuore, non possono essere urlate, possono solo correre per il filo del sottovoce.
Chiesa minore è una chiesa che, più che “mater et magistra”, si sente “soror et ministra”: così la evoca in un suo libro Fulvio De Giorgi. Sottolineo “soror”, una parola che evoca il sentirsi alla pari, non uno sopra e uno sotto, una parola che evoca l’assenza di ogni distanza. Uguali e non diversi dalla moltitudine dei piccoli della terra. La stessa barca, tutti a remare insieme, con uno stile di “sororità”. Scrive Fulvio De Giorni: “una parrocchia si fa sorella quando sa creare una vera empatia tra le persone, una comunicazione autentica di ciò che è più essenziale e che più si ha a cuore, un clima accogliente di rispetto vero e incondizionato; un’atmosfera di fiducia e discrezione; rapporti interpersonali paritari tra uguali, senza gerarchie più o meno interessate, senza logiche di fatto marginalizzanti o perfino escludenti. (Fulvio De Giorgi, Il povero anatroccolo, Paoline, 2008, pag. 150).
Chiesa minore non sarà la chiesa che giudica o la fa da padrone sulla fede degli altri, ma la chiesa della compassione, la chiesa che conosce la fatica, perché entra nelle case, non parla da fuori. Da come parla, soprattutto dei lontani, dei cosiddetti lontani, capisci se una chiesa li conosce o no. Chiesa che, come il suo pastore, prova compassione, chiesa che non ha nulla a che fare con coloro che caricano di pesi insopportabili i piccoli, i poveri e gli oppressi, chiesa che ne rivendica anzi la dignità, perché ogni essere vivente porta in sé l’immagine di Dio. Chiesa che non ha la fretta dei documenti, ma, perché sorella e serva, conosce l’arte di rallentare il passo. Porta infatti nel suo cuore la fatica dell’ultima pecora, quella gravida e quella ferita. Solo una chiesa minore potrà essere con i minori. La chiesa maggiore potrà solo dettare pronunciamenti dall’alto, con la fretta di chi non consce i nove mesi, l’attesa di nove mesi, ha la pretesa di nascite nel giro avaro di pochi giorni, nascite che il più delle volte sono mostruose.
Chiesa minore è la chiesa dell’ascolto e dell’accoglienza, sa fare spazio, perché si è svuotata. Come Dio si è ritratto creando. Per fare spazio a noi. Come Gesù si è svuotato. Per fare spazio a noi.
Chiesa in ascolto dei piccoli. In ascolto di quelli che sono giudicati minori. I giovani, per esempio.
In “Conversazioni notturne a Gerusalemme il cardinale Carlo Maria Martini confessa: “Nella gioventù ho trovato la più valida conferma di tale principio pastorale, sempre che di questo si tratti. Nella Chiesa nessuno è nostro oggetto, un caso o un paziente da curare, tanto meno i giovani. Perciò non ha senso sedere a tavolino e riflettere su come conquistarli o su come creare fiducia: deve essere un dono. Sono soggetti che stanno di fronte a noi, con cui cerchiamo una collaborazione e uno scambio. I giovani hanno qualcosa da dirci. Essi sono Chiesa, a prescindere dal fatto che concordino o meno con il nostro pensiero e le nostre idee o con i precetti ecclesiastici. Questo dialogo alla pari, e non da superiore a inferiore o viceversa, garantisce dinamismo alla Chiesa: In tal modo l’affannosa ricerca di risposte ai problemi dell’uomo moderno si svolge al cuore della Chiesa” (Carlo Maria Martini, Conversazioni notturne a Gerusalemme, Mondadori, 2008, pag. 47).
In ascolto dei poveri. Non si è chiesa minore se non si è convinti che in loro, nei poveri, parla per noi Dio. Se prepariamo i discorsi da fare nel Terzo Mondo prima di essere stati a cena con loro, prima di averli ascoltati, se questo è il nostro metodo pastorale, siamo chiesa maggiore.
Lo sguardo dal fondo dunque, o, se volete, lo sguardo dal basso. Mi ha colpito in questa stagione che stiamo vivendo un brano di Dietrich Bonhoeffer: “Resta un’esperienza” scrive “di eccezionale valore l’aver imparato infine a guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti. Degli oppressi e dei derisi, in un parola dei sofferenti. Se in questi tempi l’amarezza e l’astio non ci hanno corroso il cuore; se dunque vediamo con occhi nuovi le grandi e le piccole cose, la felicità e l’infelicità, la forza e la debolezza; e se la nostra capacità di vedere la grandezza, l’umanità, il diritto e la misericordia è diventata più chiara, più libera, più incorruttibile; se, anzi, la sofferenza personale è diventata una buona chiave, un principio fecondo nel rendere il mondo accessibile attraverso l’azione e la contemplazione: tutto questo è una fortuna personale” (Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa, Paoline, 1988, pag.74) . Lo sguardo dal basso!
Ma se in questi tempi, aggiungo io, l’amarezza e l’astio ci hanno corroso il cuore, se dunque non vediamo con occhi nuovi le grandi e le piccole cose, la felicità e l’infelicità; e se la nostra capacità di vedere la grandezza, l’umanità, il diritto, la misericordia è diventata tragicamente meno chiara, tutto questo non costituirà una fortuna, bensì il prezzo, prezzo caro, di una perdita che non ha misura.
Il sangue che dà forza alle nostre vene esaurite viene dal basso, dagli esclusi della storia. L’aria finalmente pulita l’abbiamo respirata in questi giorni sulle piazze dove si sono date convegno le donne. Sangue per le nostre vene esaurite ci sembrano venire dal basso, dalle piazze dove i popoli a rischio di vita chiedono pane e libertà. Lì abbiamo ricominciato a sognare. Dal basso.
Potrei chiudere con le parole del Cardinal Martini, sul sognare da vecchio. Come sono io.
Domanda al Cardinale, nel libro “Conversazioni notturne a Gerusalemme”: “Lei ora appartiene alla generazione più anziana: cosa sogna per la chiesa?”.
Risposta del Cardinale: “Il profeta rammenta agli anziani che devono trasmettere i sogni e non le delusioni della loro vita. Sono felice di poter sognare ora qui a Gerusalemme, come Giacobbe che vedeva gli angeli salire e scendere sulla scala celeste. Oggi vedo molte persone provenienti da tutto il mondo e di diverse religioni. Fra loro sono gli angeli che possiamo incontrare qui in terra.
Un tempo avevo sogni sulla Chiesa. Una Chiesa che procede per la sua strada in povertà e umiltà, una Chiesa che non dipende dai poteri di questo mondo. Sognavo che la diffidenza venisse estirpata. Una Chiesa che dà spazio alle persone capaci di pensare in modo più aperto. Una Chiesa che infonde coraggio, soprattutto a coloro che si sentono piccoli e peccatori. Sognavo una Chiesa giovane. Oggi non ho più di questi sogni. Dopo i settantacinque anni ho deciso di pregare per la Chiesa” (pagg. 61-62).
Sognare. Dopo tutto il Cardinale non sa nascondere che ancora sogna e che gli anziani devono trasmettere sogni. I minori ci insegnano che occorre sognare. Anche quando gli inizi sembrano insignificanti. Sognare. E pregare. Perché le cose, sognate insieme, con l’apporto di ognuno, abbiano un inizio da questa terra.