Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono.
Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». (Gv 2, 6-10)
Chissà da dove viene quello strato di grigio che prende continuamente d’assedio la nostra vita. Sapendolo, forse si troverebbe il rimedio definitivo, ma non si sa. Un po’ come la polvere. La polvere c’è, punto. E si è costretti a combatterla così com’è: ostinata, indiscreta, pervasiva. Soprattutto invincibile. La polvere non si elimina, al massimo la si sposta un po’. Una rottura. Al punto che a volte ci si arrende alla polvere e lei, senza fretta, si appropria delle cose col suo tono grigio opaco, aggiungendo una nota triste a tutto ciò su cui si posa.
Come la polvere, c’è un grigiore che tenta insistentemente di coprire la nostra vita di una patina opaca e malinconica. Ci prova con i sani principi, con gli hobby, con il lavoro, con i rapporti familiari, con l’amicizia, con le convinzioni, con gli ideali, con la fede, con le responsabilità, con le passioni, con i doveri. Ha gioco facile con ciò che ha un carattere ripetitivo, abitudinario, quotidiano e magari un po’ noioso. Ma gli piace lavorarsi anche ciò che è solitamente entusiasmante e fuori dall’ordinario. Sfrutta l’occasione di una delusione, di un po’ di stanchezza, di un litigio. È vigliacco e coglie le circostanze in cui le difese si abbassano.
C’è chi si colpevolizza e lo attribuisce alla trascuratezza personale o all’incapacità di mantenere alte le motivazioni; c’è chi accusa il mondo, la società, la cultura, la politica, la Chiesa… purché ci sia qualcuno da accusare; c’è chi minimizza dicendo che basta scuotersi e ricominciare; c’è chi dice che il grigio malinconico in fondo è bello.
Il fatto è che il grigio della vita non è mica polvere. È un cemento. Tenace, solido, compatto. E poi la polvere sta sulla superficie delle cose mentre il grigio lavora dentro. Dentro agli occhi. E non è così raro che riesca a far cambiare il modo di guardar le cose. Perché – ti dici a un certo punto – se quella cosa è diventata triste e grigia ci sarà un motivo.
Forse non è così bella come mi era parsa. Devo essermi ingannato – cominci a pensare – come ho potuto credere che valesse la pena dedicarci del tempo? Guarda com’è vecchia – ti ritrovi a dire – converrà tenerla o sarà meglio cambiarla? E gli occhi son la lampada del cuore, al quale la tristezza del grigio, si sa, non è mai piaciuta.
La tentazione di buttare tutto è dietro l’angolo. Buttare impegni, scelte, relazioni, passioni, doveri, piaceri, interessi. Buttare anni, luoghi, memorie, dimore, cose, storie. Buttare ideali, valori, principi, mentalità, fedi. Quando poi, quel buttare, non è necessariamente un gettar via ma anche solo abbandonare al grigio le cose pur continuando a viverle. Magari accontentandosi, da eterni adolescenti, di andare avanti a «botte di vita», di qualunque genere siano.
Riempire d’acqua quelle sei giare, i servi dovevano averlo fatto migliaia di volte. Vuote e abbandonate lì in mezzo a una festa e in mezzo al racconto, sanno proprio di grigio. Mi fanno credere che anche quel rito di riempimento potesse essere scivolato lentamente in qualcosa di insipido e piatto. C’è qualcosa di nuovo ora in mezzo a quel grigio. C’è una parola, un comando che trasforma la fredda abitudine dei servi in un’occasione per essere discepoli.
Essi compiono l’opera per eccellenza del credente: obbediscono al Maestro; quello stesso identico e ripetuto gesto diviene così qualcosa di inedito e mai sperimentato. Il grigio si accende. La tristezza diventa gioia. Il vuoto trabocca di pienezza. Nella fessura aperta dalla disponibilità collaborativa dei servi si incanala un fiume di bellezza che li supera raggiungendo tutti i convitati.
Così che in quel vino – in quella gioia – non appare l’immagine riduttiva di una ricompensa per chi è stato diligente, ma quella inaspettata di una Sovrabbondanza di Bene incommensurabile che non attende altro che la possibilità di riversarsi sull’uomo. Se l’appiattimento stringe d’assedio la nostra vita, non c’è da buttare nulla e non si tratta di spolverare con un colpo di novità le cose, ma di aprire una feritoia alla capacità di Dio di rigenerare continuamente la nostra esistenza.
La vita cristiana è quel particolare modo di stare nel mondo che non consiste certo nel banale sottomettersi a una serie di – grigi – precetti morali, ma nell’intenzione quotidiana di cogliere lo Spirito che anima l’insegnamento di Gesù, cercando di fargli spazio nei propri pensieri, parole, desideri, scelte e opere. Una disponibilità offerta senza preclusioni al Vangelo, nell’impegno di dargli priorità assoluta rispetto ad ogni altro criterio: questa è la “crepa” attraverso cui fluisce la più autentica gioia evangelica; questo è il più solido antidoto all’appiattimento della vita.
I cristiani capaci di riempire l’umanità di armonia, di pace, di consolazione e di speranza non sono quelli che trovano le parole giuste, il carisma più convincente, le opere più affascinanti. Bensì quelli che – magari di nascosto, sul modello dei servi di Cana – si appassionano al ruolo del discepolo obbediente aprendo così continue sorgenti di grazia sul mondo e facendo delle loro relazioni personali i canali dove lasciar scorrere la pienezza di vita per sé e per il loro prossimo.
Questi, di solito, stanno ad ammirare il miracolo dopo aver fatto tutto ciò che dovevano fare, sorridendo benevolmente di chi – come il maestro di tavola a Cana – si erge a profeta, parlando a sproposito di ciò che non sa. Li trovi sempre lì, in disparte. E senza un bruscolo di polvere addosso.
don Cristiano Mauri