I suoi romanzi sono polposi, dagli sfondi vasti, sui quali si muovono personaggi di ogni tempo e di ogni tipo, densi di umori, di sensazioni, di idee, quasi tutti inquieti e spaesati. Sull’esempio di William Faulkner, egli crea per essi un particolare spazio nel quale gli sia possibile incontrarli e conoscerli. Da analista attento e paziente, riesce a scoprire rancori, annidatisi negli animi da decenni, che si ridestano e provocano gesti apparentemente gratuiti. I personaggi di alcuni romanzi danno l’impressione di essere manovrati da fantasmi o di agire come fantasmi: sfuggenti, alienati, in preda a passioni inconfessabili: pedofilia, incesto, violenza omicida. Quasi tutti sono dominati dall’istinto sessuale, che li sospinge su sentieri talvolta impensati e malsani.
Chi è Abraham B. Yehoshua?
A. B. Yehoshua è nato a Gerusalemme nel 1936. Ha fatto il servizio militare come paracadutista e si è laureato in Letteratura ebraica e Filosofia all’Università Ebraica di Gerusalemme. Sposato con Rivka, psicologa e psicanalista, padre di tre figli, dal 1963 al 1967 ha vissuto a Parigi. Rientrato in Israele, si è stabilito a Haifa nella cui Università insegna Letteratura ebraica e Letteratura comparata. La sua opera letteraria, narrativa, drammatica, e anche i suoi numerosi interventi sui problemi più scottanti del momento — storici, sociali, culturali — gli hanno procurato una risonanza internazionale e ne hanno fatto uno scrittore di culto, soprattutto in Italia, Paese che egli ama in modo particolare.
Alla domanda: perché ha scelto il mestiere dello scrittore? Yehoshua risponde: «La letteratura ha un potere straordinario, ci prende e ci trasporta in una realtà del tutto diversa, immaginaria, e riesce a farci reagire come se vivessimo personalmente le vicende che leggiamo; niente altro ha una forza simile. Possiamo venire a sapere che c’è stata una disgrazia in un certo luogo, possiamo vedere alla televisione i corpi che vengono estratti dalle macerie, ma difficilmente piangeremo; il telespettatore rimarrà scosso, ma non piangerà mai davanti allo schermo. Invece un racconto riesce a toccarci profondamente, in quanto si rivolge a noi in modo diretto, personale»[3]. In altre parole, un romanzo o un racconto contengono una forza di suggestione e di identificazione che altri mezzi di comunicazione non hanno, e che Yehoshua considera «le chiavi dell’arte». La forza della suggestione e il nesso fra il quotidiano e la fantasia sono alla base del suo mestiere di scrittore. «Il più grande complimento che possa farmi qualcuno che ha letto un mio libro non è dirmi che l’ha trovato bello o interessante, ma che ha pianto» [4].
In realtà, la sua opera narrativa, anche se non suscita il pianto, induce a una forte commozione, grazie a due elementi. Innanzitutto alla sua capacità di far identificare con i suoi personaggi per cui le loro emozioni — paure, sdegni, gioie, sofferenze — diventano tue, senza tuttavia che tu voglia imitarne il comportamento. In secondo luogo, Yehoshua ha l’arte di catturare l’attenzione e la simpatia del lettore con storie e con modi di scrittura che variano in ogni sua opera. Diversi sono i generi letterari da lui usati: romanzo storico (Viaggio alla fine del millennio), racconto allegorico (La morte del vecchio, Il rapido serale di Yatir), sfondo sociale (L’amante, Un divorzio tardivo), saga familiare (Il signor Mani). Diversi anche i registri narrativi: monologo interiore e stream of consciousness (flusso di coscienza), in chiave del tutto particolare, cioè non abbandono nell’irrazionale ma sforzo di comprendersi e di comprendere ascoltando e interrogando se stessi e gli altri in un incontro virtuale. Questo registro narrativo talvolta fa pensare al coro dei classici. A tutto ciò si aggiunge l’arte del narrare, avvincente e sciolto, la vivacità delle descrizioni e dei dialoghi, la precisione e la varietà dei tratti psicologici, la particolare resa delle sensazioni e dei moti di animo, la vena ironica e umoristica, il sapiente intreccio della vicenda.
I personaggi di Yehoshua — ha scritto C. Sensi — «vivono non soltanto nello spazio, ma anche nel tempo, sostenuti e sospinti da una forza narrativa calma e insieme incalzante, che quasi mai conosce le secche della stagnazione e sa inglobare senza stonature sia brani di discussione sia sentenze balenanti. Nelle sue pagine passa tutto ciò che concerne l’umano, col coraggio di porre le domande inquietanti, di “azzardare la parola mistero”, di scandagliare chi siamo, di interrogarsi sull’enigma del tempo, sull’esistenza dell’anima, sul senso della storia, e di tracciare la topografia tortuosa dell’amore e del dolore» [5].
Tema dominante della sua opera è l’identità ebraica. Da geniale affabulatore, fa sì che esso venga fuori dalle situazioni più varie e che fermenti nell’anima dei personaggi causando lacerazioni e dilemmi. Yehoshua non permette piacevoli sogni né facili illusioni. Seduce il lettore con la malia dell’arte, ma nel sottofondo della sua opera c’è sempre l’angoscioso dilemma dell’identità ebraica e la drammatica questione della convivenza israelo-palestinese.
Le ossessioni del professor Yohanan Rivlin
La sposa liberata [6] è tra i più noti e paradigmatici romanzi di Yehoshua. Tradotto in 22 lingue, denso di vicende, di personaggi e di temi, percorso da ossessioni, fughe e ritorni, fluviale e polifonico, rimanda a Manzoni e a Dickens. Pubblicato nel 2001, è ambientato tra il 1998-99, quando la prospettiva di pace tra israeliani e palestinesi era incrinata dalle prime mosse dell’Intifada. Vecchi rancori e diffidenze, mancanza di confini e di sicurezza, precarietà di situazioni e incertezza del futuro, tutto creava un’atmosfera di paura e di disagio. Il romanzo si snoda su questo sfondo. In circa 600 pagine, l’Autore descrive, con puntualità e raffinatezza, la complessità di tale periodo storico, incarnandola in personaggi vivi e tipici, e affronta problemi storici, psicologici e culturali all’origine del conflitto israelo-palestinese. La sposa liberata si può pertanto definire un romanzo alla ricerca dell’identità nazionale e personale per liberarsi dalle ossessioni e approdare alla libertà, sociale e individuale, e alla convivenza pacifica.
Yohanan Rivlin, docente di Storia mediorientale all’Università di Haifa, è invitato alla festa di nozze di Samaher, sua allieva, araba, nel villaggio di al Mansura, in Galilea. Haghit, sua moglie, giudice distrettuale, ha cercato di dissuaderlo dall’accettare l’invito. «“Ti stai cercando un dolore inutile?”. “Ma sono solo arabi”, ha risposto lui con dolcezza, con il candore di chi si dedica alla loro cultura. “E cioè? Che intendi dire? Che non sono completamente degli esseri umani”. “Tutt’altro… Tutt’altro” si è affrettato a giustificarsi, senza spiegare come gli arabi potessero essere umani senza risvegliare la sua invidia» (p. 51). Perché invidia? Perché la felicità degli sposi potrebbe risvegliare in lui l’invidia e conseguentemente la sofferenza mai sopita per il divorzio dal figlio Ofer.
Infatti, nel fervore della festa, l’invidia e la sofferenza lo invadono con tale intensità da cercare gli occhi della moglie per avere un sostegno e non soccombere allo scoramento. Lei però, pur condividendo il dolore del marito, ride e si diverte. L’invidia è un sentimento a lei estraneo; Rivlin non trova complicità nel suo sguardo, ma soltanto un sorriso inteso a calmarlo e ammonirlo di non incupirsi accanto agli arabi, cortesi e felici. Ma lui resta incupito, la felicità degli altri lo irrita. Come può dimenticare che Ofer, cinque anni fa, dopo appena un anno di matrimonio, è stato ripudiato dalla giovane e bella Galia? Umiliato e distrutto spiritualmente, se ne è andato a Parigi, chiedendo l’assoluto silenzio sulla sua disgrazia.
Silenzio? Dimenticanza? La richiesta del figlio a Rivlin risulta impossibile e insensata. Come può un padre rassegnarsi al dolore del figlio? a non comprendere il perché del divorzio? La ricerca della verità è, in lui, più forte di ogni divieto e di ogni promessa. Convinto di avere il diritto di sapere, lotterà per ogni brandello di verità, con tenacia e astuzia, contrariamente alla moglie, decisa a rispettare la volontà del figlio. «Lascia perdere, — ha proseguito lei con dolcezza, — lascia perdere. Questa tua ostinazione ti crea soltanto frustrazione e dolore» (p. 77). In realtà, la ricerca di Rivlin diventa ossessione, e lo stimato professore di Storia dà l’impressione di un pover’uomo manovrato da un demone che si diverte a tormentarlo.
Nel descrivere tale ossessione Yehoshua gioca le sue carte migliori. Dimentico delle raccomandazioni e della promessa fatta alla moglie e al figlio, si reca più volte, di nascosto, a incontrare Galia e altre persone che possano rivelargli qualche brandello di verità; corre anche il rischio di restare vittima del furore erotico della sorella di Galia. Nonostante i suoi tentativi, la verità sul naufragio matrimoniale del figlio gli sfuggirà abbandonandolo alla sua ossessione. Lentamente, con chiarezza e sconcerto crescenti, il lettore approderà alla verità: il lettore, non Ravlin, che continuerà a vagare nel buio.
Penetrando in uno scantinato, Ofer aveva scoperto la passione incestuosa del padre di Galia per la figlia Tehila. Inorridito, per un senso di onestà, ne aveva parlato a Galia. Manovrata dal padre, lei aveva finito per credere che Ofer fosse vittima di un’allucinazione: «Ti prego di dimenticare tutte queste tue fantasie disgustose, di chiedere scusa e di startene zitto» (p. 253). In tale situazione la rottura del matrimonio era inevitabile. Da Parigi, in una lettera, che non avrebbe mai spedito, Ofer le scriveva: «Tu, volendo, avresti potuto avere la prova tacita e decisiva che quanto ti avevo raccontato era vero, così come era reale il villaggio arabo che si stendeva ai nostri piedi. Ma tu non volesti, e nonostante ti fossi accorta del disagio di tuo padre (disagio di cui avresti potuto dedurre il significato), decidesti di avere pietà di lui e non di me, perché di papà ce n’è uno solo, mentre un marito si può ammansire o sostituire. Sapevi che solo ostinandoti a negare la verità, trasformandola in un’allucinazione, avresti potuto difendere l’onore della tua famiglia e la dolce memoria della tua infanzia. E davanti ai miei occhi, in gesto di sfida, ti alzasti e andasti ad abbracciare il “Signor Hendel” [tuo padre], per farlo sentire meglio. Ed escludesti me» (p. 265).
Escluso e incatenato a un’ossessione: «Ossessionato. Ancora ossessionato. Incatenato a te e ossessionato» (p. 263). Quando l’arabo Fuad, personaggio-chiave del romanzo, rivelerà a Galia la verità in tutta la sua crudezza, lei comprenderà l’onestà e la forza di animo di Ofer. Sentirà anche il bisogno d’incontrarlo e di chiedergli scusa per non averlo capito e averlo ripudiato. Potrà così sentirsi una «sposa liberata».
Sul tema del divorzio di Ofer-Galia e sui riflessi che esso comporta su Rivlin e su quanti sono in esso coinvolti, se ne innesta un altro, per taluni aspetti non meno ossessivo: il rapporto tra arabi e israeliani. Perché tra i due popoli è così difficile realizzare una pacifica convivenza? Perché quel muro d’incomprensione, di diffidenza e di paura? Perché gli assurdi scatti di violenza omicida? Gli interrogativi premono con insistenza su Rivlin, costretto così a vivere tra due ossessivi perché.
In una intervista rilasciata a Il Secolo XIX (7 novembre 2002) Yehoshua ha affermato: «Penso che ciò che è successo sia fondamentale per leggere il presente. Quello che accade oggi è una semplice continuazione di ciò che è stato. Credo profondamente nelle lezioni della storia, soprattutto per quanto riguarda il mio paese. Serve per analizzare i comportamenti e le identità. Le cose si ripetono, e per evitare gli stessi errori bisogna conoscere il passato». Rivlin — nel quale, sotto alcuni aspetti, si nasconde Yehoshua — è dello stesso parere. «Io sono uno storico — dichiara — e il passato per me rappresenta una miniera profonda, inesauribile, piena di sorprese e di possibilità» (p. 171). La storia della rivolta algerina contro i francesi — tema sul quale si è specializzato — lo ha confermato nella sua convinzione. Quando 170 anni fa il regime coloniale costrinse una zona algerina a diventare provincia francese, senza che alla popolazione venisse accordato il diritto di cittadinanza, non si pensava che «dietro il chador che copre quella terra avvelenata» si sarebbero nascosti i germi della violenza di un secolo dopo. Anche i disordini del 1934 nella zona di Costantina, a parere di Rivlin, possono essere considerati «eventi precorritori del terrore cieco che sarebbe esploso negli anni Novanta» (p. 155). Le vicende storiche dell’Algeria sono metafora di quelle della Palestina. Gli arabi considerano gli israeliani degli usurpatori, gli israeliani vedono gli arabi come «quelli che sono venuti nella loro terra». Tutti e due avvertono la carenza dell’identità nazionale; ciò rende nevrotici e insoddisfatti gli israeliani, iracondi e disperati gli arabi. Tale stato di cose risveglia negli animi insofferenza, incomprensione e rancori, sepolti da decenni, se non da secoli. Il signor Swissa, ebreo, definisce gli arabi «vipere e serpenti». «Non si illuda, professore. Anche quando recitano poesie d’amore rimangono vipere e serpenti» (p. 454). Il professor Efraym Akry, ebreo osservante, invitato a una festa nuziale di arabi, fa un discorso «impietoso e duro» per mettere a nudo «le debolezze e i fallimenti degli arabi nel corso di cinquecento anni di dominio turco» (p. 11).
Il professor Rivlin — che giudica il discorso del collega ispirato a razzismo — è di opinione contraria. Dopo anni di studio e di frequentazione, «gli arabi sono parte integrante del suo modo di essere». Li comprende e li stima, pur riconoscendone torti e limiti. Li conosce anche attraverso la loro poesia e i loro racconti. La sua allieva Samaher in ciò lo aiuta a meraviglia. A lei Rivlin assegna come tesi di laurea la traduzione in ebraico di testi letterari arabi. Le idee e le sensazioni che da essi si sprigionano sono straordinarie: traducono in forma letteraria le frustrazioni, le aspirazioni e le disillusioni degli arabi. Samaher cerca in essi non il valore letterario ma il «significato nascosto, rimasto invisibile durante i cinque anni di studio trascorso con il professore» (p. 201).
Quale significato nascosto? Uno scrittore tunisino, ad esempio, si ispira allo Straniero di Camus, che narra l’assurdo assassinio di un arabo da parte del francese Meursault. «Ma Jamal ben Al Maluh, segace e ironico, lascia che il suo eroe rimanga fedele all’assurdo, e come lo straniero francese anche quello locale rifiuta di esprimere rammarico per l’accaduto e di domandare perdono in tribunale, limitandosi e ripetere la sua strana giustificazione: è stata la luna a indurlo a uccidere. Anche il giudice arabo viene trascinato nell’impetuoso vortice dell’assurdo. Lascia libero l’assassino e così, conclude Samaher in un tono di vittoria, Jamal ben Al Maluh prova che l’assurdo arabo può essere più forte di quello francese» (p. 209).
La conclusione di Samaher è chiara: l’assurdo genera assurdo, l’odio genera odio, la morte genera morte. Non si giudichino gli arabi nell’immediatezza delle loro azioni, ma nelle cause remote che le hanno provocate. È anche la tesi del professor Rivlin. La sua indagine storica e i suoi numerosi contatti con gli arabi lo hanno reso benevolo e comprensivo nei loro riguardi. In un festival di poesia preislamica, organizzato dagli arabi nella città di Ramallah, «libera dall’impietoso giogo israeliano», si è anche reso conto del genio poetico arabo e della nostalgia di pace e di amore di un popolo senza patria.
È possibile sperare in una convivenza pacifica tra gli israeliani e gli arabi? La finale del romanzo permette una risposta positiva, a una condizione preliminare: liberarsi dai fantasmi. Rivlin ha avuto una madre impossibile: scontrosa, incontentabile, querula, sospettosa. Un vero incubo per lui. Quando lei muore, agli occhi del figlio si trasforma in fantasma che continua a infastidirlo: un fantasma che lui materializza nella vecchia dell’appartamento di fronte. Un bel giorno, al balcone della vecchia, vede il figlio minore che conversa tranquillamente con un amico. Agitato e ammaliato, esce di casa e raggiunge l’appartamento del «fantasma»: una vecchia dal volto sorridente. «Buon giorno signora, sono il capo dei suoi operai, — si presenta Rivlin. — Sono venuto a controllare il lavoro e ad assicurarmi che lei sia soddisfatta […]. Voglio che lei sia completamente soddisfatta di me e del lavoro svolto da me e dai miei ragazzi, — prosegue Rivlin con garbo esagerato, avvertendo con gli occhi il figlio di non tradirlo» (p. 591). Il fantasma si è dissolto. «Con il cuore fremente di soddisfazione, orgoglioso che il figlio minore sia riuscito a domare un fantasma tanto coriaceo, Rivlin avanza con passo leggero verso il balcone inondato dalla luce del mattino». Il simbolismo dell’episodio è evidente: per la pace tra i popoli e tra le persone occorre superare i «fantasmi» del passato, costruiti dall’ingiustizia, ma anche dall’ignoranza e dai pregiudizi, e operare nella realtà dell’oggi, incontrando gli altri e conoscendoli, in un dialogo sincero e aperto alla mutua comprensione.
«…mille anni fa, quando…»
Nel Viaggio alla fine del millennio [7] il problema dell’identità dei due popoli si concentra sull’identità degli ebrei. Yehoshua così puntualizza il problema: «Il popolo ebraico si è suddiviso in due grandi gruppi, tra i quali ora in Israele c’è una certa tensione, i sefarditi e gli ashkenaziti. Questa divisione risale a mille anni fa, quando hanno cominciato a svilupparsi nuovi centri culturali, uno a sud, che ha portato all’epoca d’oro della cultura ebraica in Spagna, e l’altro a nord, che si è sviluppato attorno al Reno. In questa regione è nata quella che oggi viene definita l’ortodossia, il cui stereotipo, prediletto dai giornalisti, è l’ebreo religioso, il “vero ebreo” vestito di nero con i boccoli laterali, che in realtà in Israele non è visto di buon occhio. Tutto è cominciato con lo studio della Torah, che si è sviluppato soprattutto in Germania» [8]. Tale suddivisione comporta un grave interrogativo: dove si trova il vero ebreo? Nel Nord o nel Sud? A Tangeri e Cordova o a Worms e Parigi? Il problema è complesso perché «nell’ebraismo non c’è un equivalente del Papa […], nell’ebraismo ogni persona che studia la Torah è libera di darne l’interpretazione che più le sembra giusta» [9]. Alla fine del primo millennio è sorta la questione della bigamia, ammessa dai sefarditi e proibita dagli ashkenaziti. Il romanzo si sviluppa su questo dissidio.
Un mattino di estate dell’anno 999 gli abitanti del «piccolo e lontano borgo» di Parigi vedono approdare sulle rive della Senna una grande nave. È salpata da Tangeri, carica di mercanzie dalle quali ci si ripromette un lauto guadagno. L’equipaggio è vario. Col proprietario Ben-Atar, ricco commerciante ebreo di Tangeri, ci sono le sue due spose, Abu-Lutfi, suo socio in affari, ebreo arabo ismaelita, il comandante e il suo equipaggio arabi, uno schiavo negro, animista, e una coppia di dromedari.
Lo scopo principale del viaggio è chiaro: la riconciliazione di Ben-Atar col nipote Abulafia, suo socio nel commercio, vedovo, trasferitosi a Parigi e risposatosi con Esther-Mina, ebrea ashkenazita. Questa donna «dagli occhi chiari e capelli dorati», inorridita dalla bigamia di Ben-Atar, ha indotto il marito a rompere il sodalizio commerciale con lo zio bigamo. «Una nuova moglie? Aveva mormorato donna Esther-Mina nella lingua sacra, quasi temesse di pronunciare quelle due parole dell’idioma locale per non scandalizzare il servo franco, assopito accanto alla porta» (p. 89). Innamorato della moglie, Abulafia ha accettato la disapprovazione della bigamia e chiesto lo scioglimento del sodalizio.
Per scongiurare questa rottura, Ben-Atar ha affrontato il lungo viaggio e le insidie dell’Anno Mille, tanto temute dai cristiani. Intende dimostrare sia al nipote sia a sua moglie, anzi a tutti gli ashkenaziti, che la bigamia non solo è lecita ma anche consigliata. A tale scopo ha condotto con sé Elbaz, rabbino di Siviglia: «Nel caso venisse sollevata, già al primo incontro, la questione della disapprovazione, Elbaz avrebbe potuto imporre subito la propria autorità in materia di dogma» (p. 102). Il contrasto tra le due tesi si inasprisce e si decide di convocare un tribunale per definire la questione. Così, nell’anno 999, a Villa-les-Juifs, ci si ritrova tutti, bigami e antibigami, per dibattere il problema e attendere il responso del tribunale. Un tribunale particolare, in una buia cantina di campagna, con la partecipazione anche delle donne («Le donne? perché no? — sentenzia il rabbino Elbaz —, anch’esse sono state create a Sua immagine e somiglianza»), presieduto da sette giudici, scelti tra i vignaioli del posto. Il rabbino, grazie alla sua «poetica» arringa, ha la meglio.
«O ebrei franchi, strani e lontani, di che cosa vi meravigliate? Cosa temete? Di grazia, aprite il Libro che noi tutti consideriamo sacro e lì troverete i grandi Patrarchi: Abramo, Isacco, Giacobbe: bigami, trigami e poligami. Proseguite poi nella lettura ed ecco dinanzi a voi Elcana con le sue due mogli, e questo ancor prima di imbattervi nei re dalle molte consorti, primo fra tutti il grande Salomone» (p. 166). L’effetto dell’arringa è assicurato. Per consolidarlo il rabbino fa l’elogio di Ben-Atar: «È un uomo capace di amare, filosofo e saggio dell’amore giunto da lontano per proclamare pubblicamente che è possibile amare due donne in eguale misura» (p. 167). Le due donne sono presenti ed esultano per la vittoria, mentre Esther-Mina ha l’anima in tumulto per le idee «repellenti» del rabbino.
La vicenda si complica quando la bella Esther-Mina dichiara di ripudiare il marito qualora riannodi le relazioni commerciali con Ben-Atar; una norma dei saggi babilonesi la rende decisa: il marito ripudiato è tenuto a concederle divorzio immediato. Dinanzi a tale minaccia, Abulafia, innamorato della moglie, allo zio, chino su di lui, rivolge queste parole: Se non hai la forza di uccidermi, o zio, lasciami libero, perché mai io rinuncerò a questa donna (p. 197). Per scongiurare il pericolo di una rottura tra zio e nipote, il rabbino lancia la proposta di convocare un altro tribunale nella città natale di Esther-Mina, Wermaizah (Worms). La decisione sconcerta l’arabo Abu-Lutfi che «si rifiuta di capire questa nuova mossa nella guerra tra ebrei. Mai in vita sua potrà capirli sapendo, per esperienza, che non vi è al mondo un solo ebreo che possa sottometterne completamente un altro, bensì, tutt’al più sovvertirne le opinioni» (p. 203).
Dopo dieci giorni di viaggio lungo le strade che si snodano tra la Senna e il Reno, i due gruppi raggiungono Worms. Siamo nell’anno «4760 secondo il calendario ebraico, dal cui utero antico, tra cento giorni, nascerà il cristiano Anno Mille, giovane e impetuoso» (p. 222). Il processo, presieduto da un solo giudice, si celebra nella sinagoga. Donna Esther-Mina spera «che le donne della sua città natale pongano rimedio, con la loro saggezza, ai guasti procurati dalle donne scalze e ignoranti della cantina nei pressi di Parigi» (p. 227). Ma la prospettiva del dibattito non è a lei favorevole; tutto fa credere che il verdetto confermerà il precedente. La situazione si capovolge quando la seconda moglie di Ben-Atar proclama la sua disponibilità non solo «a essere duplicata» ma a essere anche duplicatrice». Propone cioè «il diritto di bigamia contraria»: che una donna possa avere più mariti. Il verdetto è perentorio: «Non solo di disapprovazione nei confronti del socio giunto dal meridione, ma anche di anatema e scomunica» (p. 261).
La terza parte del romanzo narra l’amara conclusione del viaggio. Ben-Atar, a motivo della scomunica, è escluso dalla comunità sefardita; la sua amarezza raggiunge il colmo quando la morte gli rapisce la seconda moglie. Il sacrificio vittimale di questa morte gli permette, sì, di ristabilire il sodalizio col nipote, perché ora non è più bigamo, ma attorno a lui si fa il deserto. Il comandante arabo gli fa comprendere che non ha più autorità sulla nave; senza dirgli nulla, il socio Abu-Lufti, col concorso del comandante, ha avuto cinque schiavi in cambio di cinque sacchi di spezie aromatiche. «Abu-Lufti non ha alcun dubbio che i capelli biondi e la pelle rosata, l’azzurro e il verde degli occhi susciteranno l’entusiasmo e l’interesse degli abitanti dell’Andalusia e del Nordafrica, che richiederanno immediatamente una seconda partita di quella merce» (p. 361). Ben-Atar resta interdetto, ma non ha più la forza di protestare. È avvilito anche per la perdita dello schiavo negro, rimasto a Parigi, volontaria preda sessuale di tre donne. Questi fatti, pur dolorosi, sono episodi; il fallimento decisivo del viaggio è forse velato nella penultima pagina del romanzo: «I flutti del procelloso oceano e gli impetuosi venti del nord» riservano alla nave salpata da Tangeri un destino più amaro della morte della seconda moglie.
L’affannosa ricerca dell’identità ebraica
Ci siamo soffermati nell’analisi di La sposa liberata e Viaggio alla fine del millennio per far comprendere gli sfondi sui quali Yehoshua presenta la complessità dell’anima ebraica, le idee e i sentimenti che la agitano e l’affannosa ricerca della sua identità. Questa complessità struttura la sua opera nei suoi diversi aspetti. In L’amante (1977) i componenti di una famiglia in crisi riferiscono le vicende in maniera diversa, talvolta antitetica. Non si comprende perché ci si accanisca gli uni contro gli altri né perché si resti estranei e chiusi agli altri sì da rendere la vita opprimente. In Un divorzio tardivo (1882) Yehudà Kaminca si trasferisce in America in prospettiva di una vita appagante. Rientra in Israele per formalizzare il divorzio da Noama. La situazione familiare si ingarbuglia per la diversità di vedute e ci si muove in un’atmosfera d’incomprensione, dilacerati tra amore e odio. Tale situazione è metafora di Israele alla ricerca della sua identità, composto com’è da ebrei autoctoni ed ebrei della diaspora, ognuno con le proprie idee. Cinque stagioni (1987) è la storia di Chomo al quale la morte ha tolto la moglie, ma lo costringe a pensare alla vita: come costruirsene un’altra, come trovare ragioni per andare avanti. Così succede a Israele: deve trovare motivi per sopravvivere assieme agli arabi e agli immigrati.
Un discorso particolare meriterebbe Il signor Mani (1990) sia per la struttura sia per la ricchezza di contenuto. In esso Yehoshua usa un procedimento analogo a quello della psicanalisi: il paziente inizia a «confessarsi» andando indietro nel tempo per ritrovare, con l’assistenza dell’analista, l’origine del suo malessere. Nel romanzo il signor Mani ricostruisce la storia della sua famiglia, ebrea sefardita, ripercorrendone a ritroso cinque tappe: la guerra del Libano, l’Olocausto, la conquista della Palestina da parte dell’impero britannico (1917), l’opera di Theodor Herzl e l’inizio del sionismo (1899), la «primavera dei popoli» (1848) quando in Europa si è affermato il principio che ogni popolo ha il diritto di autodeterminazione. In cinque dialoghi cinque diversi «signor Mani» ci guidano alla ricerca dell’identità ebraica e, percorrendo il passato, ci rivelano gli elementi che hanno determinato l’Israele di oggi. «A volte le cose che ci influenzano ci sono completamente oscure, ma se potessimo cercare nel passato familiare e scoprire tutto quello che è successo ai nostri avi, avremmo una visione molto più completa di noi stessi. Il signor Mani si articola attorno a questa idea» [10].
Per intensità e drammaticità tematica Il responsabile delle risorse umane (2004) è tra i romanzi più significativi di Yehoshua. Alla ricerca di identità qui subentra l’odierna tragica situazione in Israele, la pietà per le vittime della violenza, la rivolta contro l’assuefazione alla morte. Dinanzi al cadavere di una donna sconosciuta, uccisa nel mercato in un attentato kamikaze, il responsabile delle risorse umane del panificio, dove la donna lavorava, è incaricato di identificare il cadavere e di scortare la bara nel paese di origine. L’identificazione ha esito positivo; la morta, Julia Regajev, era addetta alle pulizie pur essendo laureata in ingegneria. Non trovando di meglio, si era rassegnata a fare questo lavoro pur di rimanere a Gerusalemme al cui richiamo religioso lei, emigrata cristiana, non voleva sottrarsi. L’identificazione della defunta opera nel responsabile delle risorse umane un innamoramento e un impegno a vincere la sua aridità spirituale e a iniziare una nuova vita [11].
Voglio invecchiare con dignità
Abbiamo cercato di individuare gli elementi portanti della narrativa di Yehoshua, giustamente considerato come scrittore di alto livello sia per contenuto sia per forma letteraria. L’analisi dei suoi racconti completerebbe e confermerebbe tale giudizio. A conclusione del nostro esame vogliamo esporre la concezione dello Scrittore riguardante l’uomo e la vita, la religione, la morale e la letteratura.
Chi è l’uomo per Abraham Yehoshua? È un misterioso prodotto della natura, ammirevole per molti aspetti, per altri meno. È «legato a un inconscio che va al di là della psicologia spicciola, anzi della psicologia tout court. Nessuno sa che cosa si trova nell’inconscio familiare e collettivo» [12]. Ma non è un automa. Gli capita, sì, d’interiorizzare taluni comportamenti poiché «i codici morali possono cambiare da una cultura all’altra», ma in lui «c’è sempre una consapevolezza primaria e universale su che cosa è bene e che cosa è male» [13]. E la vita, che cos’è? «Ogni vita è una storia» dagli aspetti più diversi: ora dignitosi e fecondi, ora meschini e deleteri. Ha un senso? «È una domanda fondamentale». Non sappiamo. Sforziamoci di vivere dignitosamente, impegnandoci per il bene di tutti.
Yehoshua non è un credente, ma nutre interesse e rispetto verso la religione. Sa bene che la Bibbia è «la base della cultura ebraica», ma la vede soltanto sotto l’aspetto etico e letterario. I personaggi nei quali egli maggiormente si riconosce, ma senza identificarsi in essi, sono persone perbene — come il professor Rivlin — ma a una sola dimensione, l’umana. La trascendenza, la rivelazione, il culto restano fuori dal loro orizzonte. Avvertono il tormento del desiderio e l’estraneità di Dio.
Sul rapporto tra etica e letteratura il pensiero di Yehoshua è preciso: lo sviluppa in Il lettore allo specchio e in Il potere terribile di una piccola colpa. Etica e letteratura. Mentre oggi la critica letteraria evita scrupolosamente tale questione ed esita a formulare esplicitamente giudizi di valore, egli ritiene che essa sia fondamentale. Eliminarla significherebbe impoverire — se non addirittura tradire — la letteratura per le conseguenze nefaste che ciò potrebbe causare. Yehoshua parte dalla seguente premessa: «La letteratura non esige dai suoi fruitori comprensione, bensì identificazione». La conseguenza è chiara: «In virtù di questo fenomeno di immedesimazione la questione morale non resta al solo livello cognitivo, ma entra a far parte della personalità stessa del lettore; diventa insomma il suo problema esistenziale. Per questo l’impatto morale della letteratura, quando è buona, raggiunge, sconvolgendoli, gli strati più profondi della personalità»[14]. Il discorso andrebbe approfondito. Non si può però negare che lo scrittore eserciti un forte influsso sull’atteggiamento etico dei suoi lettori.
Per questi convincimenti Yehoshua non ha simpatia per il post-modernismo secondo cui «non si può assolutamente parlare di questioni morali: tutto è trattato nel modo più irrealistico, senza che si possa dire che cosa è giusto e che cosa non lo è»[15]. La sua decisione è perentoria: «Voglio invecchiare con dignità e rifiutare di applaudire entusiasta di fronte a qualunque stupidaggine; rivendico il diritto di approvare soltanto ciò che mi convince veramente»[16].