A colloquio con Luca Argentero. Volto di un presbitero tra gli ultimi

Articoli home page

«Quello che è successo nel mondo in questo periodo non deve essere soltanto sinonimo di paura, insicurezza e di solitudine. Può diventare invece occasione di un rinnovato sentimento di fratellanza che rinasce fortificato proprio in un momento così difficile… Noi pensavamo che la povertà non ci riguardasse, ci sentivamo al sicuro, invece proprio oggi scopriamo che le persone escluse dal benessere non sono soltanto numeri, non sono soltanto statistiche, siamo noi, siamo volti, storie… Comunque, come cristiani non possiamo più essere indifferenti alla povertà. Proteggere i poveri significa proteggere tutti, significa proteggere noi stessi. Essere un po’ più vicini a Dio oggi significa avere almeno un amico povero».

Parole che sembrano riconducibili ai discorsi e alle meditazioni di Papa Francesco. Eppure, si tratta di una scena del film Come un gatto in tangenziale. Ritorno a Coccia di Morto diretto da Riccardo Milani. Tra i protagonisti di questo atteso sequel, insieme a Paola Cortellesi e Antonio Albanese, troviamo anche Luca Argentero, che veste i panni di un sacerdote, don Davide, che anima la periferia della Capitale. E sono proprio di don Davide le parole citate in apertura; si tratta di un passo della sua omelia, quando entra nelle pieghe del Vangelo e nel contempo annoda i fili con il magistero di Papa Francesco.

A ben vedere, sulle prime potrebbe persino apparire quasi irriverente accostare al Santo Padre un film che si muove sul binario della commedia; eppure la commedia, a differenza del cinema comico tout court, è un genere cinematografico di solido e lungo corso, che vanta anche un obiettivo morale di rilievo: raccontare il tessuto della società attraverso il filtro della leggerezza, mostrandone allo stesso tempo pregi e difetti, guadagni e deragliamenti, attraverso personaggi, maschere, spesso più sbilanciate nelle mancanze o nelle inconsistenze.

Film tutt’altro che di superficie è Come un gatto in tangenziale, sia nel primo fortunato episodio del 2017 che in questo riuscito sequel in uscita nelle sale italiane dal 26 agosto. Nell’opera non mancano citazioni cinematografiche alte, in testa il cinema di Ingmar Bergman, rimandi rivisitati però in chiave assolutamente pop, tra l’effervescente e il dissacrante, cui si lega comunque uno sguardo sociale tutt’altro che banale. È un racconto — il copione, compatto e senza sbavature, è firmato dallo stesso Milani, dalla protagonista Cortellesi insieme a Giulia Calenda e Furio Andreotti — che conduce con il sorriso nelle distanze (a tratti siderali) tra ceti sociali, tra centro e periferia, tra Nord e Sud. Uno sguardo divertito e divertente, corredato però da un sottofondo denso di senso, cesellato da note drammatiche sulla società di oggi, una realtà italiana ferita e disorientata in cerca di risposte, in cerca di elementi aggreganti, inclusivi.

E aggregante, per non dire trascinante, è proprio il prete di strada don Davide tratteggiato da Luca Argentero, apprezzato e versatile volto del nostro cinema e della serialità Tv, al quale ho proposto, dopo aver potuto vedere in anteprima il film, di riflettere un po’ insieme.

Anzitutto chiedo a Luca del suo personaggio, un prete in una parrocchia nella periferia di Roma, un avamposto sociale per famiglie in difficoltà; gli domando se ci sono figure di sacerdoti cui si è ispirato. «L’ispirazione — rimarca l’attore — non l’ho avuta direttamente io, ma Riccardo Milani, che mi ha raccontato di avere incontrato un prete che lo ha molto colpito e di essersi ispirato dunque a lui per costruire il personaggio che nel film è don Davide. Così ha innestato all’interno della storia la figura di questo sacerdote. Io per interpretarlo mi sono basato più sui suoi racconti, che molto semplicemente erano una testimonianza rispetto all’operato di un parroco che vive, diciamo, la frontiera, vive l’avamposto sociale per eccellenza, la periferia e tutti i problemi ad essa collegati, che rendono l’uomo di Chiesa un uomo dedicato quasi più alle questioni pratiche dei propri fedeli che non ai quesiti spirituali».

Collegandomi alla sua risposta, ho sottolineato come nella vita di tutti i giorni noi presbiteri incontriamo uomini e donne, persone che spesso presentano problemi, sofferenze, necessità concrete, persone cui da sacerdoti cerchiamo di manifestare la vita di Dio che è in noi, vita fatta di prossimità, attenzione e condivisione. «Sì, l’idea di raccogliere il cibo — aggiunge Argentero, richiamando l’operato pastorale di don Davide nel film — e portarlo a persone che hanno problemi a far la spesa è un argomento, ahimè, sempre più attuale. Purtroppo, spesso dimentichiamo che esistono la povertà come l’analfabetismo. Oltre un anno di pandemia ha evidenziato tutto ciò. Io vengo a contatto con tantissime realtà sociali e mi rendo conto che i problemi sono estremamente concreti, tangibili, e quando la Chiesa si affaccia a tali problematiche e impellenze delle persone svolge un ruolo doppiamente lodevole».

Evidenzio come si tratti della visione della Chiesa che Papa Francesco ha da subito definito povera per i poveri. «Mi pare — prosegue l’attore — che sia proprio la forza della condivisione concreta ciò che caratterizza la Chiesa di Papa Francesco. Oggi è davvero un messaggio importante far sentire, da parte dei fedeli, che si ricrea un contatto con le persone. È a ben vedere quanto incarna don Davide, che Riccardo Milani ha sempre chiamato un “Che Guevara” della fede».

Mi viene da rispondere che si tratta di un paragone un po’ azzardato. «No — replica Argentero — è un modo simpatico per raccontare l’essenza dell’operato di don Davide. Lo stesso tatuaggio che lui porta nel film, e che può sembrare fuori luogo, è un modo per raccontare che si può andare anche oltre la normale etichetta. E quando si supera un po’ l’etichetta, capita che si sconfini in territori che sono molto importanti e raggiungono il cuore delle persone, e il cuore dei fedeli».

Sottolineo a Luca che il film è una commedia dal chiaro messaggio sociale: quello di abbattere le distanze e i pregiudizi tra centro e periferia, mettendo la solidarietà al centro. Gli domando, pertanto, se secondo lui la commedia rifletta o amplifichi la realtà odierna; e ancora, se può essere utile il genere della commedia per raccontare la società che siamo chiamati a vivere. «Assolutamente, lo è sempre stata». Risponde l’attore, che poi aggiunge: «Nella vita si ride e si piange, ed è esattamente quello che fa la commedia: ti fa sorridere, ti fa ridere, come succede tutti i giorni, ma suggerisce anche occasioni di riflessione, a volte di tristezza, altre di disperazione. Nella tradizione della commedia all’italiana c’è proprio la volontà di essere uno specchio del momento vissuto e lo ha fatto nelle varie epoche. Se uno ripercorre un po’ le grandi opere firmate da Mario Monicelli a Ettore Scola, arrivando poi ai nuovi autori come Paolo Genovese o Riccardo Milani, si coglie come siano tutti registi che trattano la commedia all’italiana e cerchino di trovare spunti divertenti. Perché, poi, un po’ come italiani siamo anche fatti così: cioè amiamo prenderci poco sul serio, e prenderci in giro anche per i nostri peggiori difetti. Tutto questo però per raccontare e affrontare cose estremamente serie».

Si direbbe, preciso in chiave sintetica, che la commedia sia un genere per antonomasia includente. «A me continua a sembrare strano — dichiara Luca Argentero — dover parlare ancora di inclusione. Quest’ultimo periodo che abbiamo vissuto è stato così trasversale e ci ha per l’ennesima volta ricordato che i problemi sono di tutti e non riguardano i singoli ceti sociali, ma tutti siamo sulla stessa barca. Se noi non iniziamo a capire che il problema del mio vicino è anche un mio problema, difficilmente riusciremo a superare le difficoltà. Ammetto che, anche rispetto alla mia esperienza legata al mondo della solidarietà, il popolo italiano è un popolo estremamente generoso e solidale. Facciamo ancora fatica a superare qualche barriera sociale, perché c’è ancora qualche differenza tra Nord e Sud, tra ceti differenti, e ci sono ancora grandi disuguaglianze di reddito, però, insomma, mi sembra che quando è il momento, quando c’è una vera necessità, riusciamo a buttare giù i muri».

In questo racconto del volto missionario della Chiesa, ricollegandomi ad alcune sequenze del film Come un gatto in tangenziale. Ritorno a Coccia di Morto, lo scontro tra Giovanni e Monica rimarca anche la questione circa il bisogno di aprire spazi culturali nelle periferie (ripenso anche al bel docufilm di denuncia Residence Bastoggi in onda all’inizio degli anni Duemila sulla terza rete Rai). Chiedo dunque a Luca cosa ne pensi, il quale risponde subito: «È un discorso complesso che domanda anche e forse soprattutto risposte politiche. Personalmente penso che se le persone vivono in mezzo alle brutture inevitabilmente regrediscono. È quindi importante riuscire a portare il bello ovunque, perché questa è un’enorme fonte di ispirazione e miglioramento personale. Pensiamo anche alle città: una città ordinata e pulita rappresenta una sentinella verso atteggiamenti negativi come il buttare cartacce o mozziconi di sigarette per terra. Una città, invece, malcurata con cassonetti pieni inevitabilmente sembra “sdoganare” comportamenti non di cura verso di essa». Insomma, commento, il contesto determina in qualche modo i comportamenti. E l’attore ribadisce: «Sì, è sempre colpa nostra, perché siamo noi il primo motore di questo. Quando uno sta in mezzo al bello, lo vuole conservare, preservare, desidera farne parte. Se uno invece sta in mezzo al brutto, va a finire che poi aderisce a esso».

Cogliendo l’opportunità di questa conversazione chiedo poi a Luca Argentero dei ruoli interpretati nella stagione 2020-2021, in particolare due figure in primo piano per l’emergenza: don Davide nel film di Milani e il medico Andrea Fanti nella serie Tv D OC – Nelle tue mani. Gli domando se esistano elementi di contatto tra i personaggi. «C’è un enorme punto di contatto — risponde Luca — che è la parola chiave soprattutto di DOC , ma anche di don Davide: è la parola empatia, cioè creare un interesse, una vicinanza nei confronti di chi ti sta attorno, sia che si tratti di un fedele che di un paziente, una persona in difficoltà da un punto di vista umano-spirituale o da un punto di vista della salute poco importa. È ritrovare un naturale interesse, una naturale vicinanza, verso la persona prossima, e che sta soffrendo. Quella è la missione, penso, di chi fa il prete o il medico».

Aggiungo in linea un’altra domanda. Guardano la sua filmografia, dove figurano ruoli da medico, sacerdote, insegnate, padre, chiedo a Luca Argentero come scelga i personaggi da interpretare. «A volte — sottolinea — mi capita di dire dei no ad alcune proposte, ma tendenzialmente cerco di dire il più possibile dei sì, perché mi piace stare sul set. Ogni esperienza è sempre foriera di nuove conoscenze, di nuovi incontri»

Tornado al film Come un gatto in tangenziale. Ritorno a Coccia di Morto, evidenzio come con Paola Cortellesi e Antonio Albanese si sia creato un trio speciale, che rende tutto molto ben calibrato e coinvolgente. Con luminosa schiettezza Luca risponde: «Io sono una semplice spalla, perché poi loro due insieme sono irresistibili e il mio compito era quello di innestarmi in un meccanismo che già funzionava benissimo. La vera difficoltà è stata riuscire a rimanere nel cast con attori talentuosi come Paola e Antonio, e di resistere alla loro irresistibile sintonia. Io, infatti, tutto sommato non ho quasi nessuna parte di commedia vera; alla fine ho le uniche parti serie rispetto a loro due, che invece si divertono a recitare la commedia. Quindi, per me è stato più faticoso che altro».

Avviandomi verso la conclusione della nostra chiacchierata, gli indico che nel film c’è un passaggio che richiama l’episodio che ha visto protagonista il card. Konrad Krajewski, autore nel 2019 di un gesto sociale di grande risonanza: riattaccare la corrente elettrica in un contesto abitativo degradato nella Capitale. «Questo rimando — risponde l’attore — è tutto merito di Paola Cortellesi e di Riccardo Milani. Hanno una tale sintonia di scrittura, e sono perfetti insieme».

Prima di lasciarci chiedo a Luca se c’è un personaggio che vorrebbe ancora interpretare. «No, è più una questione di generi — risponde Luca, che aggiunge — Visto che dopo tanti anni (ormai sono passati vent’anni!), e di cose ne ho fatte tante, spunto le caselline che sono rimaste libere. Se insisti, ammetto però che anche rispetto alla tradizione del nostro cinema fare un western non mi dispiacerebbe affatto. Ma forse ne passerà ancora di tempo».

di DARIO E. VIGANÒ