Monsignor Castellucci, cos’è che non va più nei seminari diocesani?
Invece che “non va più” direi “che non va abbastanza”. Intendo dire che il modello di formazione corrente dovrebbe integrare i cambiamenti radicali intervenuti tanto sul piano ecclesiale che sociale nella figura del prete. Oggi spesso i giovani candidati devono fare i conti con parecchi timori: la paura di vedersi spesi in soffocanti incombenze organizzative piuttosto che nell’annuncio del Vangelo, il rischio di sentirsi impantanati in una pastorale tradizionale, senza novità e senza entusiasmo, il rischio di un iperattivismo che condiziona il tempo della preghiera e della riflessione, i dubbi sulla qualità del proprio celibato che è oggi assai meno protetto che in passato. E, soprattutto, il timore di non essere in grado di mantenere negli anni una coerenza di vita, nel raffronto inevitabile con i preti che coerenti non sono, o che lasciano il ministero: benché pochi, la loro situazione fa parecchio rumore. Mi sembra che l’attuale strutturazione del Seminario non sia più sufficiente ad attrezzare i futuri presbiteri. Mi rendo ben conto che è un argomento spinoso e che rischia di dividere chi difende la forma attuale e chi ne vorrebbe un’altra. Ma qui non c’entra nulla l’essere progressisti o conservatori, qui conta saper dare una formazione che sia congrua alla vita che il prete dovrà svolgere. Penso che i padri conciliari tridentini, che ebbero grande coraggio riformatore e l’intuizione di ristrutturare in profondità la pastorale, istituendo tra l’altro i Seminari, sicuramente e con lo stesso spirito, promuoverebbero oggi una analoga profonda riforma adeguata alla realtà odierna.
Ma dove si denota maggiormente il distacco tra formazione e realtà attuale del ministero?
Nella prefazione al libro di don Brancozzi cito un episodio. Durante una riunione sulle vocazioni nella mia diocesi di provenienza, un frate francescano ci disse pressappoco così: noi religiosi siamo più fortunati di voi diocesani, perché negli anni della formazione veniamo abituati a vivere uno stile di vita, uno scandire i tempi, una prassi liturgica, che sarà poi la medesima della nostra vita conventuale; mentre i diocesani seguono per sei anni un tipo di vita molto scandito e custodito, ma quando escono sono poi chiamati a condurre una vita molto diversa e devono imparare a gestire da soli il tempo, custodendo gli spazi della preghiera e dello studio, senza farsi travolgere da un ministero sempre più complesso. Si potrebbe ipotizzare, come cerco di fare nella prefazione, qualche “esperimento” guidato, in Italia, per immaginare un percorso di preparazione al ministero presbiterale in due fasi: una più “collegiale”, come è il Seminario attuale, e una più “parrocchiale”, divise a piccoli gruppi (di almeno due), dove i seminaristi potrebbero abitare in un centro parrocchiale e imparare a ritmare lo studio, la pastorale, la preghiera.
Insomma, pare di capire, che il discorso sulla crisi dei processi formativi non possa prescindere dal più generale problema della crisi della figura del prete oggi. Ma intanto mi lasci dire, come costantemente ci rammenta Papa Francesco, che occorre sgombrare il campo da quest’accezione negativa del termine crisi.
La crisi è sempre culla di cambiamenti. Purché la si sappia accogliere, non la si rimuova, ci si sappia vivere dentro, e volgere in positivo. Dobbiamo guardare alla realtà dei fatti. I due indicatori principali, cioè il numero di vocazioni e il numero di abbandoni dal ministero, ci dicono che la crisi c’è ed è profonda. È cambiata l’eco, gli abbandoni in particolare fanno meno scalpore che negli anni Settanta, ma il fenomeno rimane. Dopo quegli anni turbolenti si diffuse l’errata convinzione che vi fosse una “specificità italiana” in controtendenza rispetto alla crisi globale, ma i fatti successivi la stanno smentendo; oggi non possiamo più vivere di rendita e ci rendiamo conto che occorrono scelte coraggiose. È cambiata, certo, la cornice di riferimento: una volta gli abbandoni avevano una dimensione mass-mediatica, e il sapore di una contestazione, contro la rigidità dell’istituzione, contro la legge del celibato, contro i vincoli morali, e per una Chiesa povera. Oggi la dimensione è piuttosto quella della rinuncia individuale, del ripiegamento, della crisi d’identità dell’insostenibilità dello stile di vita richiesto. Penso che dovremmo maggiormente indagare sul ruolo socio-ecclesiale del prete: è cambiata la percezione del suo ruolo da parte del popolo di Dio e della società. È venuto meno quel profilo di sacralità che si attribuiva e gli si attribuiva. La realtà ha corso più veloce della teologia e per quanto già il Vaticano II — rilanciando il sacerdozio battesimale — avesse già lasciato da parte le categorie del presbitero mediator Dei et hominum o del sacerdos alter Christus, non sono mancate nel periodo successivo al concilio, e non mancano tuttora, recuperi di questa visione sacrale. D’altronde questa crisi d’identità va letta all’interno di quel più ampio fenomeno da metabolizzare che Papa Francesco, senza mezzi termini, ha definito come “la fine della cristianità”.
Nella scarsa aderenza alla realtà rientra anche uno stile di vita, diciamo così, più “comodo” o deresponsabilizzante?
Non mi sento di generalizzare. Vi sono tanti preti che faticano molto, fisicamente e psicologicamente, e vivono un ministero tutt’altro che “comodo”. La missione del presbitero richiede un’empatia con la vita delle persone, sempre più complicata; un’empatia che non può essere solo di facciata. Il prete partecipa anche emotivamente alle vicende quotidiane della gente a cui è inviato. Ovviamente vi possono essere anche delle “rendite di posizione”, per chi riesce a crearsele; oltre che ingiuste, non sono più attuali col mondo d’oggi. Non so come si possa conciliare la passione dell’annuncio del Vangelo e della prossimità alle persone con la “comodità”, ma ogni tanto qualcuno ci riesce. In questi casi, ci si chiede sempre come sia potuto accadere che negli anni del Seminario i formatori non abbiano intercettato questa tendenza alla “fuga” e al “riparo”. E prima ancora del processo formativo c’è l’aspetto non meno importante della selezione all’ingresso. Sì, su questo piano già parecchi interventi sono stati fatti. Oggi nei Seminari il discernimento vocazionale è svolto in parallelo ad una disamina della personalità psicologica dei candidati. I rifiuti all’ingresso non sono più rari e si cerca di non farsi prendere dall’ansia del numero. Dobbiamo del resto rapportare la diminuzione dei seminaristi ai tempi mutati. Le cito solo alcuni dati: la rarefazione di famiglie con molti figli e la riduzione drastica delle nascite hanno sicuramente contribuito a ridurre il numero delle candidature; gli ingressi sono sempre più spesso di persone “mature”, spesso dopo magari una prima laurea civile; anche il background culturale è molto cambiato: non pochi provengono da studi tecnici o scientifici senza una solida base filosofica e a volte anche catechistica; alcuni hanno già vissute esperienze anche difficili. Tutto ciò rende il discernimento più complesso di un tempo, e sicuramente non lo esaurisce nelle sole fasi iniziali del percorso.
A fronte di questa situazione lei ha formulato una proposta, alla quale ha già accennato.
Sì, ma ci tengo a ribadire che è “una” proposta, senza alcuna pretesa. Credo che sia opportuno, in questo campo, procedere in via sperimentale e progressiva. E anche tenendo in buon conto alcune esperienze già sperimentate in altri Paesi, penso alla diocesi di Parigi per esempio. La proposta è per il primo triennio perfettamente aderente alle attuali indicazioni, sia vaticane sia italiane: coloro che si dichiarano disponibili al ministero sacerdotale dovrebbero vivere innanzitutto un anno propedeutico, nel corso del quale verificare la congruità della chiamata (specie sotto il profilo psicologico), colmare le lacune culturali (specie per le carenze in campo umanistico) e avviarsi alla vita spirituale e comunitaria. A seguire, poi, un biennio di vita in seminario, sul modello oggi in vigore, (magari però in strutture a carattere regionale o interdiocesano, in modo da marcare il distacco dei seminaristi dagli ambienti di provenienza) per concentrarsi sugli studi filosofici e approcciare quelli teologici, e per impostare una regola di vita spirituale. Il successivo triennio — qui la proposta diverge dalla prassi attuale — i seminaristi potrebbero essere inseriti in piccole comunità dentro le parrocchie, nelle quali possano imparare ad armonizzare azione pastorale e studio, momenti di fraternità e esperienze di quotidiana relazione col mondo dei laici. Infine l’ultimo anno, quello del diaconato, potrebbe essere vissuto abitando nella famiglia di un diacono permanente, per recuperare quella dimensione familiare (propria del protocristianesimo) che immergerebbe direttamente il futuro prete nelle dinamiche, anche gravose, della quotidianità familiare, e che gli risulteranno poi utili nella successiva vita ministeriale a mantenere un sicuro ancoraggio con la realtà, e a guadagnare quella necessaria dose di empatia col popolo di Dio che una pastorale efficace richiede. Ovviamente anche in queste ultime due fasi del percorso sarebbero da includere momenti collettivi di formazione (esercizi spirituali, occasioni liturgiche, ritiri, vacanze, e altro). Ripeto, non c’è alcuna pretesa in questa proposta. So per certo — dato che ne avevo scritto già nove anni fa — che vi sono anche molte plausibili obiezioni, ma a me sembra che un sistema così consenta una preparazione dei candidati più omogenea a quella che poi vivranno nella successiva vita ministeriale. E diventerebbe più vera la formula che il rettore del Seminario pronuncia, nel rito di ordinazione, alla severa domanda del vescovo sul candidato: «Sei certo che ne è degno?». La formula infatti è: «Dalle informazioni assunte presso il popolo cristiano e da coloro che ne hanno curata la formazione, posso attestare che ne è degno». Ma mi rendo ben conto, che si tratta in fondo dell’estrapolazione di un singolo tema — quello della formazione preparatoria — da problematiche più ampie, e che richiedono ripensamenti più complessivi: penso al ruolo del prete e in generale alla stessa pratica della pastorale come oggi è intesa. L’essere divenuti minoritari nel mondo non deve significare afflizione e autocommiserazione per “i bei tempi andati”, ma stimolo per una ritrovata creatività. Mi lasci esprimere un auspicio finale: che il cammino sinodale delle Chiese in Italia, appena iniziato, possa essere occasione di rinnovamento spirituale di tutta la nostra vita pastorale.