Il teologo e biblista polacco padre Andrzej Stefan Wodka, presidente dell’Agenzia della Santa Sede per la valutazione e la promozione della qualità delle Università e Facoltà ecclesiastiche (Avepro), ha partecipato al seminario di studio sull’etica teologica della vita promosso dalla Pontificia Accademia per la vita i cui atti sono stati ora pubblicati dalla Libreria Editrice Vaticana.
Qual è lo scopo del progetto a cui ha partecipato?
Non appartenendo al gruppo ideatore, posso esprimere qualche impressione a titolo personale. Mi è parso di percepire un comune impegno per costruire una piattaforma di incontro fra persone non pilotate ideologicamente, ma aperte con convinzione al valore della vita a 360 gradi e pronte a servirla in maniera coinvolta e fedele. Queste parole forse suonano fin troppo ottimiste, se pensiamo come la vita possa essere maltrattata, respinta, umiliata, manipolata, eliminata. Ma questo conferma l’urgenza di uno spazio di parola di stampo “familiare”, cioè fiducioso e fattivo nella ricerca di quanto più autenticamente tutela e promuove la vita della persona umana. Data l’ampia gamma di approcci al tema che si riscontra anche tra i credenti, si voleva — credo — “liberare” una comunicazione reciproca, rispettosa e nello stesso tempo creativa. È infatti molto sentita oggi l’esigenza di rinnovare i linguaggi per accostarsi in modo “terapeutico” alle piaghe aperte della vita. Allo stesso tempo occorre cominciare a trasfigurare queste ferite per inscriverle con parole coraggiose in quella felicità uscita dal cuore del Creatore, mentre plasmava e “animava” l’essere umano a Sua immagine e somiglianza.
L’obiettivo è stato raggiunto?
Sì, anche quando approcci teologici differenti hanno manifestato divergenze interpretative, talvolta non di poco conto. Queste diversità sono tipiche della stessa vita umana: senza “tensioni vitalizzanti” non potremmo trattare della vita umana. Per questo, credo, il seminario intendeva riconoscere la non-uniformità di vedute, senza escluderle o sopprimerle, ma favorendo il dialogo sulle argomentazioni e sulle ragioni da cui ciascuna è animata. Queste divergenze infatti toccano da vicino anche la vita dei credenti ed è spesso difficile confrontarsi con onestà e serenità.
La prospettiva sinodale avviata con determinazione da Papa Francesco ha qualcosa a che vedere con il percorso che avete seguito?
Senz’altro. Il convenire insieme da varie parti del mondo, rappresentando differenti contesti e condizioni di vita di un mondo che conta oggi 8 miliardi di persone viventi sulla terra, è già una manifestazione di sinodalità. Ricordiamo che la sinodalità è proprio costitutiva dell’essere dei cristiani, che si configura e si forma “in via” (hodós). Perciò anche il metodo — pure questo termine ha qualcosa a che fare con hodós (méthodos, strada ulteriore) — che si sentiva negli scambi aveva un’anima sinodale. Ho riscontrato un desiderio di ascoltarsi nel profondo, con determinazione, sentendosi nello stesso tempo invitati a palesare con fiducia una fioritura — magari inattesa — di prospettive. Questo nella dinamicità generativa di quadro non ancora completo o non perfettamente “sincronizzato” in un sistema coerente. Questa modalità è stata per me profondamente sinodale, anche perché rinforzata da un respiro di preghiera comune che intendeva lasciare aperta ogni “finestra” allo Spirito santo. In più la sinodalità — come si presenta nell’esperienza della prima comunità cristiana, iniziata con Gesù e culminante nell’effusione escatologica dello Spirito del Risorto — è diventata un continuo ritorno alla Pasqua, per affrontare le sorprese inattese della storia. Questo permette di chinarsi sulle piaghe dell’umanità, vecchie e nuove, che gridano ininterrottamente il bisogno della redenzione attualizzata nello hic et nunc di ogni tempo. La sinodalità che non ascolta queste grida sofferte non può neppure nascere come un “movimento verso” chi ha bisogno di cura. Nel campo dell’etica quel grido è ancor più forte, essendo causato dal genuino incontro fra libertà e obbligo, fra dono e risposta, fra il “sì” di Dio e il “sì” dell’uomo. Qui si gioca anche l’attuale bisogno di una “ossigenazione trinitaria” dell’aria umana, troppo inquinata da esasperazioni sempre nuove e massicce di falsità, di quella che si chiama oggi fake culture.
Il suo intervento era centrato sulle premesse bibliche dei temi affrontati. Pensa che nella teologia morale, particolarmente quella speciale, occorra un nuovo modo di avvalersi della Scrittura?
Ho partecipato al seminario proprio in forza della mia duplice competenza, in campo teologico-morale e biblico. La svolta del concilio Vaticano II ha comportato un importante “ritorno” nel modo di riflettere nelle scienze teologiche, praticato nella comunità ecclesiale sin dai tempi dei Padri della Chiesa. La teologia infatti ha un’anima, che è stata identificata con la sacra Scrittura. Questo principio profetico, indicato con coraggio dal Concilio, ricolloca anzitutto la nostra disciplina nell’alveo della spiritualità, intesa nel suo senso primario, che consiste nell’attribuire priorità assoluta alla grazia. Non è dunque la legge il principio fondativo, ma il dono gratuito di Dio che chiama a una risposta. Se così stanno le cose, le conseguenze fluiscono in modo più scorrevole: il compito morale è sempre preceduto dal dono di Dio, la risposta segue la chiamata.
Che cosa comporta questa precedenza del dono di Dio?
Per la teologia morale fondamentale questo ribaltamento conciliare è ormai assimilato e il discorso scientifico si gioca qui fra tre poli dinamici interconnessi: la Rivelazione, cioè la Parola di Dio in cui Egli comunica se stesso; la Visione, cioè una “traduzione” dei dati divino-umani in un linguaggio razionalmente argomentato; la prassi morale, cioè una vita cristiana felice e condivisa. Mi sono sentito, allora, molto privilegiato di poter contribuire nel seminario con una mia rilettura del tema La sacra Scrittura e la vita. Ho ritrovato qui stimoli forti per una vera e propria “risurrezione” della nostra disciplina morale. Essi sono insieme complessi e semplici. Potrebbero essere ricondotti a una sola frase: «Tu sei amato! Per questo amerai!». Complessi, perché riguardano l’inaudito fascino che Dio, Creatore e Redentore dell’uomo, esercita nei confronti dell’uomo-carne nella sua costitutiva vulnerabilità. Proprio quest’ultima è luogo di esperienza della grazia perché l’essere umano è fragile e — precisamente così — amato e destinato alla gloria nella sua carne.
La morale può dunque essere ripensata secondo questa prospettiva?
La morale, più che come peso schiacciante, può riformularsi come “sponsalità” fra dono e compito, fra libertà e legge. Portare però questa “anima” alla teologia morale su temi particolari e specifici — come quelli che riguardano il generare, il nascere, il soffrire e il morire — richiede ancora più immaginazione e coraggio. Dato che si tratta della storia di Dio con l’essere umano come carne, converrebbe far parlare “sinodalmente” ogni possibile voce, anche scientifica, che esplora il dato creaturale che pian piano emerge dalla realtà del mondo e si traduce in un sempre più preciso chiarimento del “progetto di Dio” sull’uomo. Questo progetto esiste e coincide con la felicità della vita umana, ma per molti aspetti deve ancora “tradursi” in un linguaggio che ama e serve la vita. La teologia morale speciale, allora, potrà certo “rianimarsi” immergendosi nel flusso originale dell’ottimismo del Creatore, per “rituffarsi” con fiducia in quelle comunicazioni dello Spirito che le Scritture offrono, come “laboratorio della condizione umana”. E io non mi stanco di ripetere una frase felice di sant’Alfonso de’ Liguori, dottore della Chiesa e patrono dei moralisti, che sintetizza tutto quanto ho detto finora: «Il paradiso di Dio è il cuore dell’uomo».