Pur essendo un accademico di spessore, egli sapeva parlare di teologia ai “non iniziati”. Testimone di tale dono sono il suo primo bestseller Introduzione al cristianesimo, ma anche la trilogia Gesù di Nazareth, redatta dopo l’elezione al papato. Nel primo libro, che è un’iniziazione al cristianesimo basata sulla struttura del Simbolo degli Apostoli, il giovane teologo raccoglie e amplia le lezioni tenute a Tubinga durante il semestre estivo del 1967 a un pubblico eterogeneo proveniente da tutte le facoltà. Ratzinger replica il tentativo riuscito, effettuato prima di lui da Karl Adam con la conferenza su L’essenza del cattolicesimo.
Se dovessi scegliere un altro aggettivo per definire Ratzinger, ricorrerei senza esitazione all’aggettivo “cattolico”. Non solo nel senso confessionale del termine (anche se, ricordiamolo, è stato per tutto il pontificato di Giovanni Paolo II il “custode della cattolicità” come prefetto dell’allora Congregazione per la Dottrina della Fede), ma per lo stile e l’eleganza del suo gesto teologico. Quest’uomo, sensibile e schivo, grande musicista, sapeva bene come trovare e spiegare gli accordi e le armonie della fede.
Era “cattolico” nella sua attenzione alla complessità della realtà e all’unità escatologica e teologica della Gestalt globale delle cose. Parlando dell’Eterno, non dimenticava la storia. Ascoltando i dati della fede, prestava ascolto anche alle grida della cultura espresse dai suoi eminenti rappresentanti: filosofi, letterati, artisti…
Aveva il raro dono di percepire e far percepire la coincidentia oppositorum tra elementi che a volte possono sembrare — a torto — inconciliabili: ad esempio la fedeltà mistica al Cielo e la fedeltà “politica” alla terra; l’essere teologo e l’essere maestro spirituale; l’essere profondamente cattolico e allo stesso tempo aperto ad altri cristiani e a persone di altre vedute religiose (o non religiose).
Con grande sensibilità, gli scritti di Joseph Ratzinger danno il senso della figura integrale della realtà sullo sfondo della Verità di Dio. Nella frammentazione della nostra cultura e delle nostre visioni del mondo, il suo pensiero può provocarci con la sua bellezza, chiarezza, genialità delle interconnessioni e il suo sguardo sempre fisso su Gesù — il Dio-uomo — e sull’uomo in Dio. Sapeva indicare, con uno sguardo dal basso, l’aspirazione al senso (e al Senso-Ultimo) di ogni essere umano: l’uomo — scriveva — non vive solo del pane della fattibilità, ma vive come uomo e, nella configurazione più tipica della sua umanità, vive della parola, dell’amore, del senso della realtà. Il senso delle cose è infatti il pane di cui l’uomo si nutre, di cui alimenta il nucleo più centrale della sua umanità. Ma questa attenzione alla dimensione “dal basso” non annienta la tensione verso l’alto, l’“Altissimo” che è venuto incontro all’uomo. La fede per Benedetto XVI era molto di più che credere in qualcosa, sia esso il senso della vita. La fede è credere in Qualcuno, fidarsi di Lui e affidarsi a Lui.
Le sue ultime parole rivelano la sua teologia esistenziale: «Signore, ti amo». Una fede che si affida, che crede nell’amore di Dio e risponde a questo amore. Come fedele lettore e discepolo di sant’Agostino e conoscitore e ammiratore di san John Henry Newman, credo che egli incarni perfettamente due delle loro visioni. Del primo, ricordo una delle sue definizioni di fede: «Che cosa significa credere in lui? È amarlo, custodirlo, raggiungerlo, incorporarsi alle sue membra». E del santo cardinale inglese, la formula incisiva: «We believe because we love». L’amore, l’essere amati da Dio e la risposta attiva a questo amore, ecco ciò che illumina la fede e la rende possibile.