L’eredità di un pastore a dieci anni dalla morte. La figura di Carlo Maria Martini è ancora viva nella Chiesa, nella società e nella cultura. A dieci anni dalla scomparsa Danilo Bessi e Agostino Giovagnoli hanno curato il volume Carlo Maria Martini: il vescovo e la città. Tra Milano e il mondo (da ieri in libreria per Vita e Pensiero, pagine 160, euro 15,00) che raccoglie gli interventi di quindici autorevoli studiosi e persone a lui vicine con l’intento di evidenziare le ragioni della sua attualità dal punto di vista storico, sociale, pastorale e teologico. Qui proponiamo passaggi dell’intervento dell’arcivescovo di Milano Mario Delpini, relativo all’incisività della sua proposta pastorale. Il testo sarà pubblicato integralmente anche sulla rivista “Vita e Pensiero” in uscita il 16 settembre.
La modesta riflessione che propongo intende domandarsi quali fattori abbiano contribuito a rendere incisiva l’attività pastorale del cardinale. Non intendo, ovviamente, una considerazione di “causa-effetto”, ma propongo qualche domanda su un tema che è di grande interesse, ma richiederebbe ben altri strumenti di ricerca di quelli di cui io dispongo. Tralascio le considerazioni ovvie, come quella riguardante la durata del suo episcopato. Il numero dei preti ordinati, delle diverse visite compiute nel territorio diocesano e delle molte iniziative pastorali proposte contribuisce certo a lasciare una traccia profonda nella vita della diocesi ambrosiana. Tralascio anche la considerazione, più di pertinenza teologico-spirituale e profetica, che coglie l’opera di Dio nella vicenda della Chiesa e del mondo e constata che c’è una libertà propria dello Spirito nel far emergere persone che imprevedibilmente segnano la vicenda di una Chiesa. Mi permetto piuttosto di formulare alcune risposte possibili alla domanda: perché capita ancora molto spesso che ci siano persone oggi che argomentano dicendo: «Come diceva il cardinale Martini?».
La dinamica dell’autorevolezza L’autorevolezza è una nozione che non so definire in modo appropriato. Presumo che venga studiata in tutti i percorsi che affrontano con competenza scientifica le dinamiche sociali, politiche, educative. Solo comprendo che l’autorevolezza è in ogni caso l’esito di una circolarità in cui entrano in gioco le qualità della persona, la convergenza del consenso, il prestigio del ruolo. La qualità della persona, la sua capacità comunicativa, l’attrattiva dei valori che propone suscitano un’attenzione che può diventare consenso. Il consenso diventa così un supporto per le qualità della persona e la rilevanza di quello che rappresenta e di quello che propone. L’autorevolezza del cardinale Martini può essere compresa dunque dentro questa dinamica, in cui interviene – come fattore che contribuisce a dare rilevanza alla sua opera e alla sua persona – lo stesso ruolo che gli è stato affidato. L’essere stato mandato come vescovo a Milano ha permesso che si rivelasse all’intera Chiesa Italiana la sua personalità e ha consentito progressivamente di attirare l’attenzione del mondo intero su di lui. Non era irrilevante il ruolo di rettore del Biblico e della Gregoriana, non era irrilevante la sua autorevolezza come studioso e maestro. Ma la scelta provvidenziale di Giovanni Paolo II di inviarlo a Milano come arcivescovo ha contribuito a fare di Martini un punto di riferimento universalmente conosciuto, chiamato in ogni parte del mondo a predicare, insegnare, incontrare. Questi tre aspetti – la sua persona, il consenso e il ruolo – hanno interagito profondamente facendo sì che diventasse una persona autorevole, sino a rendere incisiva anche la sua azione pastorale. Sarebbe in questo senso interessante riuscire ad approfondire come siano evolute in Martini stesso la sua conoscenza del mistero di Dio, della Chiesa, dell’umanità alla luce di questa dinamica e quindi anche la sua stessa persona, la sua qualità di uomo di preghiera, di pensiero, di relazione e persino la sua autovalutazione. L’austera sobrietà del gesuita piemontese forse preclude irreparabilmente questa via di ricerca.
La fiducia nella Parola parlata Forse si potrebbe anche ritenere che Martini ha voluto concentrare tutta la sua missione nell’intento preciso di voler richiamare la Chiesa di Milano e tutta la Chiesa alla Parola, giungendo addirittura a sognare una Chiesa «tutta sottomessa alla Parola». In questo ambito mi preme sottolineare due aspetti. Il primo attiene a una particolare fiducia accordata alla parola parlata. La mole delle sue pubblicazioni è composta in gran parte da trascrizioni di suoi interventi orali (predicazioni di esercizi spirituali, lezioni magistrali, discorsi ecc.). La fiducia nella parola parlata è una espressione della convinzione che, parlando, nell’incontro in presenza, è possibile farsi capire, aiutare a capire. Il secondo aspetto segnala inoltre una accentuazione del linguaggio dell’insegnamento. La terminologia scolastica utilizzata per le forme più note del suo magistero mi sembra una conferma di questa accentuazione. Ha infatti chiamato “scuola della Parola” la sua proposta di formazione per i giovani. Ha chiamato “Cattedra dei non credenti” la sua convocazione di personalità della cultura contemporanea per il dialogo su alcuni temi e sfide del presente.
L’attrattiva di essere avanti L’autorevolezza e l’incisività della sua proposta pastorale trova una sua particolare motivazione nella convinzione che Martini rappresentasse un’attitudine “progressista”, aperta verso le problematiche e sfide contemporanee. Il presupposto è che nella Chiesa di quegli anni ci fossero attitudini più “conservatrici” e comunque più chiuse. Queste attitudini sono entrambe legittime nella Chiesa, ma la sensibilità contemporanea e la comodità mediatica, che ama le semplificazioni e le contrapposizioni, hanno insistito nel creare l’immagine di posizioni in tensione, se non conflittuali. Secondo queste visioni approssimative Martini finisce per essere progressista e Giovanni Paolo II conservatore; Milano “è avanti” e Roma “è indietro”, Martini aperto e Benedetto XVI chiuso ecc. La semplificazione riduttiva non consente un adeguato apprezzamento dell’attitudine del cardinale Martini verso la contemporaneità.
Dunque: in che senso Martini è “avanti”, è “aperto”? Si possono individuare alcune attenzioni che confermano una sua sapiente lettura del mondo contemporaneo, non priva, forse, di una certa accondiscendenza. Metto in evidenza tre temi. 1) La sinodalità come metodo e come pratica. Sul metodo della pratica sinodale non c’è, in Martini, per quanto mi risulta, una riflessione molto articolata, ma sulla pratica si deve ricordare nella celebrazione del Sinodo 47° la costante attenzione a un lavoro volutamente condiviso con collaboratori, con organismi diocesani e con la celebrazione di Assemblee diocesane. 2) L’evoluzione di Milano verso una società plurale, multietnica, multireligiosa, multiculturale. In molti interventi Martini ha segnalato questa evoluzione anticipando un tratto che è divenuto evidente e anche inquietante con il passare degli anni. Martini ha interpretato come una sfida e una opportunità l’inarrestabile fenomeno migratorio, con un ottimismo che una certa parte della società italiana ha trovato irritante. Certo ha contribuito a seminare un’attitudine all’accoglienza e alla ragionevolezza che ha attrezzato la nostra Chiesa e l’ambiente milanese per affrontare gli eventi che viviamo. 3) La destinazione prioritaria alla singola persona. La predicazione, l’insistenza sul discernimento personale, la fitta corrispondenza fanno percepire una sensibilità per la persona. L’attenzione di Martini si rivolge di preferenza alla persona, alle sue scelte, alle sue domande. Mette in evidenza la libertà di ciascuno e non nasconde una valutazione critica rispetto alla dinamica istituzionale, alla incidenza della tradizione, della sua forza e della sua inerzia. Questi tre aspetti sono particolarmente “simpatici” alla sensibilità del nostro tempo e hanno quindi propiziato l’attenzione al suo magistero e la recezione delle sue parole, che spesso svolgono la funzione di argomento per autorità: «Come ha detto il cardinale Martini».